Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Santa Francesca Saverio Cabrini a cura di Ermes Dovico
MEDIO ORIENTE

Non illudiamoci, in Israele non inizia una nuova era

La fine di un’epoca? Non c’è dubbio che l’estromissione di Benjamin Netanyahu pone fine ai suoi dodici anni consecutivi di governo. Ma il collante che tiene assieme i partiti della nuova maggioranza, dagli arabi di Ra'am alla destra nazionalista di Yamina, sono quantomeno fragili. Il governo dovrà affrontare un momento molto difficile per Israele

Esteri 04_06_2021
Bennet e Lapid

La fine di un’epoca? Non c’è dubbio che l’estromissione di Benjamin Netanyahu dalla guida del governo di Israele, annunciata ieri sera allo scadere del tempo del mandato, poi conferito dal capo dello stato Reuven Rivlin a Yair Lapid, esponente dell’opposizione, segna un tornante che a caldo si è definito “storico”. Perché avviene dopo oltre dodici anni consecutivi in cui era primo ministro e dopo ben quattro consultazioni elettorali in due anni. Ma parlare della fine di un’epoca appare quanto meno prematuro. Per una serie di riflessioni che tengono conto del passato dell’uomo politico, della nazione che ha governato e delle prospettive che le si dischiudono nell’immediato.

Davanti agli sguardi di tutti vi sono il sospettoso collante e le innumerevoli contraddizioni che caratterizzano la coalizione di ben otto partiti, parecchi dei quali minuscole forze politiche, di destra e di sinistra; nonché la presenza, per la prima volta in un governo, di uno dei partiti, il Ra’am, della minoranza araba, per giunta dai diffidenti legami con i fondamentalisti islamici. All’opposizione c’è il principale partito, il Likud di Netanyahu, forte di ben un quarto dei seggi del Parlamento (30 del 120 della Knesset) e i partiti confessionali che continuano ad esprimere quasi un terzo dei seggi. Forze che sono state estromesse dal potere soprattutto perché sostenitrici di Netanyahu e per la bramosia di comando di ex suoi collaboratori, ambiziosi fuorusciti dal suo partito.

Ed infatti Naftali Bennet, leader di Yamina,partito di destra “forte” di sette seggi conquistati nelle ultime elezioni, sarà primo ministro per due anni, ovvero per metà della durata della legislatura. Cederà quindi la guida del governo a Yair Lapid, capo di Yesh Atid (C’è un futuro), il partito di centro sinistra arrivato secondo con 17 seggi, di fatto pure capo della coalizione che è riuscito a formare chiedendo di mettere da canto gli innumerevoli, naturali, “argomenti che ci dividono”.

Il nuovo governo nasce all’indomani di un conflitto di undici giorni con i palestinesi estremisti di Hamas, detentori del potere nella Striscia di Gaza, nemici dichiarati dello Stato sionista. Oltre alle conseguenze pesanti sulle persone, la loro vita, il loro habitat, la guerra ha intaccato seriamente i rapporti di convivenza tra arabi-israeliani ed ebrei in parecchie città della nazione. Il tutto in un contesto, quello del Medio Oriente, dominato dall’insanabile, secolare divisione fra musulmani sunniti e sciiti, e dalla  conseguente contrapposizione tra Stati ed Emirati della regione, tutti ricchi di petrolio. Emergono per importanza l’Arabia Saudita sunnita e l’Iran sciita e, di recente, anche per l’attivismo manifestato in uno o l’altro campo, alcuni Emirati del Golfo. In una realtà contrassegnata dall’intromissione di potenze straniere, non solo gli Stati Uniti, ma anche Russia e Cina (quest’ultima sempre più invasiva che intraprendente), per non parlare della Turchia. Si è visto il gioco di queste potenze in occasione dei conflitti in Afghanistan, Iraq e Siria. Mentre spavaldo è stato quello dell’Iran, finanziatore alla grande di denaro, e fornitore di migliaia di missili e droni che i palestinesi di Hamas hanno lanciato negli undici giorni del conflitto sul territorio israeliano. Puntando i riflettori su quest’ultima realtà, la disamina si fa sempre più complessa, lo sguardo sul futuro sempre più inquietante.

Staremo a vedere quale sarà il confronto del nuovo governo di Israele con il problema “numero uno” della sicurezza, quello che Netanyahu ha ben fronteggiato, consentendo alla nazione i progressi vistosi tecnologico e finanziario e – se n’è consentita l’intromissione –  il successo ammirato da tutto il mondo nel combattere l’epidemia del Covid 19. Il nemico principale resta l’Iran, dichiaratosi tale e manifestatosi tale non solo in Siria (sostegno al governo Al Assad), in Libano (ai miliziani Hezbollah) e a Gaza (Hamas); il suo accordo commerciale e finanziario con la Cina da un canto e l’accresciuta potenza nucleare dall’altro sono spine serie. Viste come grandi minacce.

E poi c’è il “problema dei problemi” quello del rapporto con l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP). La precedente amministrazione statunitense, del repubblicano Donald Trump, l’aveva affrontato con fermezza a sostegno della nazione ebraica e della visione di Netanyahu contraria a quella di “due Stati per due popoli”. Ricordiamo il riconoscimento della capitale Gerusalemme e il trasferimento della propria ambasciata da Tel Aviv; gli “Accordi di Abramo” che hanno consentito pieni e amichevoli rapporti diplomatici con Emirati del Golfo, Bahrein, Sudan e Marocco; e la “neutralizzazione” politica dell’ANP con la sospensione degli aiuti finanziari, estesa alle agenzie dell’ONU ad essa tradizionalmente legate.

L’avvento di Joe Biden alla Casa Bianca ha segnato il parziale rinnegamento della politica di Trump. Se l’Ambasciata è finora rimasta a Gerusalemme, è stato riaperto il Consolato generale a Gerusalemme Est e, con la visita del segretario di stato Antony Blinken a Ramallah, c’è stata la piena ripresa delle relazioni con Mahmoud Abbas e dei finanziamenti all’Autorità Nazionale Palestinese con un primo contributo di 75 milioni di dollari e un milione e mezzo di dosi di vaccino. E c’è stata pure la ricomparsa sulla scena dell’Egitto, con la mediazione della tregua d’armi tra Hamas e Israele compiuta dal presidente al Sisi.   

Le Nazioni Unite hanno da parte loro ripreso a considerare Israele il “pericolo numero uno” della convivenza internazionale attraverso l’operato di due sue agenzie: l’Organizzazione mondiale della Sanità e il Consiglio per i diritti umani, entrambi con sede a Ginevra. La prima ha votato una risoluzione di condanna sulle condizioni di salute nel territorio palestinese, compresi Gerusalemme Est e il Golan siriano, tutti definiti “occupati”. Il secondo ha deciso un’indagine “a tempo indeterminato” sulle violazioni dei diritti dell’uomo durante il recente conflitto a Gaza e sugli “abusi sistematici” nei territori palestinesi e all’interno di Israele. Nessun accenno ai 4.300 missili lanciati dai palestinesi verso i cittadini israeliani. E nessuna condanna ad Hamas. Che ha mostrato il suo vero volto diffondendo ed esaltando l’immagine di Yahya Sinwar, suo esponente di primo piano, che tiene in braccio e mostra un bambino armato di mitra. Contro Israele.

Dunque è una situazione che non lascia intravedere una via di uscita, o di superamento, in tempi ragionevoli. Per affrettarli, e tener viva la fiammella della speranza cristiana, ci affidiamo alla preghiera. Perché, ancora una volta e come sempre, si fa gioco della verità. Se guardiamo a recenti fatti emblematici, è stato certamente pretestuoso far scoppiare un conflitto per la vicenda giudiziaria che si trascina da decenni sulla contestata proprietà di quattro abitazioni di un quartiere di Gerusalemme; quando c’era da affermare chiaramente la supremazia politica di un movimento fondamentalista islamico, Hamas, che reagiva alla decisione dell’antagonista Al Fatah, fatta propria dall’Autorità Nazionale Palestinese, di rinviare le elezioni politiche per non vedersi sconfitta. Nello stesso tempo incitando all’odio all’interno di Israele, tra arabi ed ebrei.