Messale, ecco i testi che hanno guidato i traduttori
I traduttori del Messale italiano 2020 si sono basati sulle istruzioni Comme le prévoit (1969) e Liturgiam authenticam (2001), un discorso di Paolo VI e alcuni spunti scritti di Francesco. Tra i punti fermi di Montini c’è l’equilibrio tra la semplicità e la nobiltà del linguaggio e il fatto che le traduzioni dal latino sono oggi “voci della Chiesa”.
Prima di passare a qualche assaggio sulla traduzione nel Messale 2020, ritengo utile riflettere su che cosa vuol dire relazionarsi al Signore attraverso le traduzioni. Mi limiterò a citare i documenti della Chiesa che hanno guidato i traduttori del Messale 2020: le istruzioni Comme le prévoit del 25 gennaio 1969 (da ora in avanti: Clp) e Liturgiam authenticam del 28 marzo 2001 (da ora in avanti: LA), nonché un discorso di Paolo VI e alcuni spunti del Romano Pontefice Francesco. Così, almeno per una volta, entreremo nella sala di regia per renderci conto delle procedure, ma anche degli atteggiamenti da coltivare per incontrare il Signore in un regime di traduzioni.
I PUNTI FERMI DI PAOLO VI
Paolo VI il 10 novembre 1965 si rivolse ai traduttori liturgici con un discorso in latino - non facile da tradurre! -, nel quale focalizzò due equilibri da mantenere, esprimendo come due temi musicali che poi sarebbero stati ripresi con infinite variazioni nei documenti a seguire.
Il primo equilibrio è tra la semplicità e la nobiltà del linguaggio: «Sebbene il linguaggio “volgare” (...) debba essere strutturato in modo di essere compreso anche dai bambini e dalle persone semplici, sempre tuttavia (...) bisogna che sia degno delle altissime realtà celesti, che attraverso tale linguaggio vengono espresse; che sia differente dal linguaggio semplicemente quotidiano usato nelle strade e nei luoghi pubblici». Un risultato del genere comporta di non limitarsi alle traduzioni letterali e Paolo VI cita san Girolamo: «Se traduco parola per parola ottengo un effetto assurdo; se per la necessaria comprensione cambio qualcosa nelle parole e nella sintassi, sembra che venga meno al mio compito di interprete del testo (PL 27,35)».
Il secondo equilibrio è tra le versioni che semplicemente traducono un testo e quelle che danno voce alla Chiesa: «Le versioni editate qua e là prima della promulgazione della Costituzione sulla Sacra Liturgia si proponevano di far comprendere ai fedeli i riti celebrati nella lingua latina, erano cioè “sussidi” per il popolo che non conosceva questa lingua antica. Invece le versioni fatte adesso sono parte degli stessi riti e sono diventate “voce della Chiesa”».
Agli equilibri da mantenere da parte dei traduttori corrispondono due atteggiamenti da coltivare da parte dei fedeli: non attendersi solo di essere interpellati con un linguaggio “di ferialità, di strada, di periferia ecc.”, ma ravvivare il desiderio di udire parole nuove che esprimono realtà più alte; poi coltivare la coscienza che le traduzioni non sono un semplice surrogato, ma la voce della Chiesa nella quale risuona la voce dello Spirito Santo.
QUALE ESATTEZZA
Nella parola liturgica «Cristo stesso parla al suo popolo (...); la Chiesa parla al Signore ed esprime la voce dello Spirito che la anima» (Clp 5). Per cui i libri liturgici devono essere «insigni nella sana dottrina, accurati nel linguaggio, immuni da qualsiasi pregiudizio ideologico» (LA 3) e il testo originale «tradotto con la massima integrità e accuratezza» (LA 20) e «in piena sintonia con la sana dottrina» (LA 26). Soprattutto le formule strettamente sacramentali devono essere tradotte «integralmente e fedelmente» (Clp 33; cfr. anche LA 63).
Ma la traduzione letterale non basta e «bisogna sforzarsi anche di comunicare fedelmente a un determinato popolo, e nel suo proprio linguaggio, ciò che la Chiesa ha voluto comunicare con il testo originale a un altro popolo e in un’altra lingua» (Clp 6), anche perché spesso ciò che porta alla comprensione «non è la parola, ma l’intera proposizione» (Clp 12). Il Romano Pontefice Francesco nel Motu proprio Magnum principium (3 settembre 2017) ripete le stesse frasi.
Altri limiti all’esattezza delle parole per raggiungere l’esattezza del contenuto sono certe frasi latine «molto concise e piene di idee», che «potranno essere tradotte più liberamente» (Clp 34): così sono state tradotte le orazioni delle Messe soprattutto domenicali; oppure certe parole legate ai riti, dove bisogna lasciare che «i segni e le immagini dei testi e le azioni rituali parlino da soli» senza esplicitare con troppa esattezza (LA 28).
PAROLE E MODI DI PARLARE INCOMPRENSIBILI
Nel caso di espressioni difficili da comprendere perché di sensibilità superata - ad esempio “disprezzare le cose terrene”, Dio “placato” (e come, se prima non era “irato”?) ecc. - «non basta sopprimere ciò che non va, bisogna trovare come esprimere nel linguaggio attuale realtà evangeliche equivalenti» (Clp 24). Altre volte non si trova «alcuna parola che renda con esattezza il testo», per cui la liturgia vi aggiunge un senso proprio: ad esempio “mistero” non è solo «qualcosa di nascosto», ma richiama «la realtà soprannaturale comunicata in un segno sensibile» (Clp n. 18).
Che fare in questi casi per superare un disagio di estraneità? Anzitutto la traduzione «non supplisce alla necessità di assicurare una sufficiente catechesi» per spiegare quanto sopra (Clp 15; LA 29 vi aggiunge l’omelia). In secondo luogo e paradossalmente un certo numero di parole al di fuori del linguaggio comune rendono i testi «più facili da imparare a memoria e più efficaci nell’esprimere le realtà soprannaturali» (LA 27), sviluppano «gradualmente in ogni lingua vernacola uno stile sacro» (LA 27) e anzi una nuova cultura (cfr. LA 47 e Clp 19).
La ricaduta pastorale è la catechesi su alcuni termini del linguaggio del Messale, nonché il gusto e la voglia personale di approfondire quanto crea difficoltà di comprensione.
PUNTI FERMI... DIVENTATI MOBILI
LA aveva richiamato alcuni criteri: rendere il più possibile i sinonimi latini e i vari modi di denominare Dio (cfr. LA 51); non affievolire la causalità divina «con parole o locuzioni che esprimono soltanto una specie di aiuto estrinseco o profano» (LA 54); riprodurre «la relazione tra gli enunciati, così come si presenta (...) nelle proposizioni subordinate e relative, nella disposizione delle parole e nei vari tipi di parallelismo (...), per quanto è possibile (...) alla lingua vernacola» (LA 57); non cedere al linguaggio inclusivo ricorrendo sistematicamente alla «divisione in maschile e femminile di un’unica voce che esprime un’entità collettiva» (LA 31).
LA era/è un documento anche reattivo e rivolto all’intera Chiesa, per cui non si può dire che il Messale italiano 2020 abbia sistematicamente snobbato i criteri di cui sopra, ma certo non ha resistito alla tentazione di aggiungere “sorelle” a fratelli - linguaggio inclusivo, ne riparleremo - e soprattutto molti traduttori oggi non sono convinti di dover legare e connettere le singole frasi con troppi “poiché” e “affinché” perché oggi non si parla più così, salvo poi ribadire in altri contesti che “tutto è connesso” perché oggi così va di moda...
Qui tuttavia, oltre la polemica, è fruttuoso prendere coscienza che la liturgia - insegnando un linguaggio - non si limita alle parole, ma forma a un certo modo di percepire/affrontare la realtà di Dio e della salvezza. Sì, per salvarsi bisogna “anche” entrare in un certo linguaggio!
OSPITI E CONCITTADINI MA RESPONSABILI
Nella Lettera apostolica Scripturae sacrae affectus per il XVI centenario della morte di san Girolamo (30 settembre 2020) il Romano Pontefice Francesco osserva che la traduzione è un «atto di ospitalità linguistica» e «il traduttore è un costruttore di ponti». Vero. Ma di fronte alla traduzione liturgica di un nuovo Messale la gioia e lo stupore di essere ospiti di un linguaggio nuovo devono prevalere sull’attesa di trovarvi il nostro linguaggio “di tutti i giorni”. In realtà questo stupore è naturale quando si incontra una persona nuova, si apre un libro, si guarda un film, si va a teatro ecc. Chi e che cosa lo inibisce? La grigia cultura di certi preti e registi di sinistra. Non diamo loro ascolto e conserviamo lo stupore di essere ospiti di un nuovo linguaggio per passare, da ospiti, a «concittadini dei santi e familiari di Dio» (Ef 2,19).
Concludiamo notando che per tre volte l’apostolo Paolo usa l’espressione “il mio Vangelo” (cfr. Rm 2,16; 16,25; 2Tm 2,8) e san Tommaso d’Aquino nel commento si domanda come mai, essendo anche ministro del Battesimo, Paolo non dica mai “il mio Battesimo”. La risposta è che nel ministero della Parola «ha molto peso l’esortazione e la sollecitudine» dell’apostolo e mentre nell’effetto del Battesimo «nulla è prodotto dall’operare dell’uomo..., nella predicazione del Vangelo è attiva l’opera dell’uomo» (nn. 49, 223). Dunque in tutto ciò che riguarda la parola, il peso della nostra mediazione è più forte che nei gesti strettamente sacramentali e, se ciò vale per l’ispirazione delle Scritture e per le stesse parole di Cristo da trasmettere, a maggior ragione vale per le preghiere della Chiesa e per le traduzioni.
Gesù Cristo ha voluto dare fiducia ai suoi consegnando loro le sue parole senza un testo scritto e similmente lo Spirito Santo ha ispirato - in modo diverso dalle Scritture - le grandi preghiere della tradizione e continua oggi a sostenere i processi di traduzione, se è vero che l’aiuto di Dio «non è accordato solo ai traduttori ma alla Chiesa stessa, lungo tutto il processo che conduce all’approvazione di un testo stabile e definitivo» (LA 75). Certo, questo peso dell’attività umana sull’opera di Dio comporta dei rischi di errore o di offuscamento dell’ispirazione divina, rischi che nelle traduzioni liturgiche sono molto forti ed è normale addivenire a contestazioni e correzioni. Ma se lo Spirito Santo ha deciso che valeva la pena di correre tali rischi, viviamo felici nel regime delle traduzioni e diamo fiducia allo Spirito Santo: “Chi sono io per giudicare?”.