Madre surrogata o padre gay? Un giudizio salomonico
Regno Unito: una donna, con cinque figli, si offre di fare da madre surrogata a una coppia gay. Ma dopo la nascita ci ripensa e se lo tiene. La legge britannica le dà ragione, ma solo inizialmente. Perché poi riconosce il ruolo del padre biologico, che è uno dei due gay. Da un punto di vista morale, hanno torto tutti, tranne il bambino.
La vicenda si svolge al di là della Manica. Una donna, madre di cinque figli e con alle spalle già altre esperienze di maternità surrogata, conosce on line una coppia gay maschile che vuole un bambino tramite la pratica dell’utero in affitto. Lei si fa avanti e accetta la proposta. Stringono allora un accordo scritto e poi la donna vola a Cipro nel settembre del 2015 per farsi impiantare in utero un embrione, dato che nel Regno Unito tale pratica è vietata. L’embrione è stato prodotto con il seme di un partner della coppia omosessuale e con l’ovocita di una donna diversa da quella che ha portato avanti la gestazione. A fine aprile del 2016 nasce il bambino sul suolo inglese, ma colei che ha partorito il bambino, insieme a suo marito, non vuole più consegnare il piccolo alla coppia omosessuale. Dopo nove mesi nel suo ventre lo sente proprio e vuole esercitare un diritto di recesso dall’accordo stipulato.
Infatti gli accordi iniziali tra le coppie prevedevano che il neonato fosse dato in adozione per il tramite di un ordinanza a favore della coppia gay. Infatti il minore era ed è giuridicamente figlio di colei che lo ha partorito e dunque anche del marito. Inoltre l’ordinamento giuridico inglese non riconosce la maternità surrogata e quindi considera nulli gli accordi intercorsi tra la coppia gay e la donna. In breve il bambino era figlio legale della donna che lo aveva partorito e del marito di lei e la coppia omosessuale non poteva vantare nessun diritto sul pargolo perché gli accordi stipulati sarebbe stati carta straccia in qualsiasi aula di tribunale di Sua Maestà.
La coppia omosessuale ovviamente non ci sta ed inizia una vertenza giudiziaria. In primo grado il genitore omosessuale vince. I coniugi ricorrono in appello e il contenzioso si trascina fino ai nostri giorni. Nel frattempo il bambino continua a vivere con la donna che ha affittato l’utero. Oggi il piccolo ha 18 mesi. Venerdì scorso la Corte di Appello di Londra si è pronunciata: che il minore sia consegnato alla coppia omosessuale perché è giusto che il bambino cresca con almeno un genitore biologico. Dato che però il piccolo in questo periodo è cresciuto con la donna che lo ha portato in grembo e con suo marito e dato che è figlio legale loro, si concede a costoro di vederlo 6 volte in un anno.
Il giudice dunque si è trovato di fronte a questo scenario: da una parte abbiamo un genitore biologico, ma non legale, e dall’altra una coppia, genitori legali ma non biologici. In punta di diritto la vertenza doveva essere vinta dalla coppia di genitori legali. Avrebbero potuto perdere se si dava prova, tramite il test del Dna, che né la donna né l’uomo erano genitori biologici del piccolo. Questa prova non è servita, infatti il giudice ha trovato un altro criterio per soddisfare le richieste del partner della coppia gay: il famigerato miglior interesse del minore. Il best interest è stato individuato dalla valutazione di diversi fattori, tra cui spicca quello secondo cui è meglio per il bambino crescere con almeno un genitore biologico. Quindi il risultato giuridico di tutto questo papocchio è il seguente: il bambino rimarrà figlio legale della donna che ha prestato l’utero e di suo marito, ma verrà dato in affido alla coppia gay. Formalmente la donna e suo marito rimangono genitori del minore, sostanzialmente è la coppia omosessuale ad esercitare la potestà genitoriale sul bambino. La decisione del giudice McFarlane è compromissoria, sebbene sia in definitiva assolutamente a favore della coppia gay, e rispecchia un quadro genitoriale ibrido.
Tutto questo in punta di diritto. Ma sul versante morale che giudizio dare? Da questo pasticcio è difficile uscirne però la soluzione meno peggiore potrebbe essere la seguente, tenuto conto del miglior interesse del minore. Bene che il piccolo cresca con il padre biologico, male che cresca all’interno di una coppia omosessuale. Questo secondo aspetto è pregiudiziale rispetto al primo e quindi sarebbe bene dare in affido o in adozione il minore. Se la donna che lo ha portato in grembo dimostra di essere all’altezza, lei potrebbe essere la prima scelta del tribunale. Ma una donna che decide di affittare il proprio utero quali garanzie potrebbe offrire per la sana educazione del bambino?
Questa storia dimostra ancora una volta che l’omosessualità e l’utero in affitto sono rispettivamente una condizione e una pratica intrinsecamente disordinate che, a cascata, portano ad altri disordini morali e sociali.