L’umanità della regina Didone
All’arrivo dei Troiani, guidati da Enea, a Cartagine, la bellissima Didone si mostra generosa. Lei, che ha conosciuto il dolore, si offre di aiutare i naufraghi. Interviene poi Venere che suscita nella regina un folle amore per l’eroe venuto da Troia, fino a farle desiderare di conoscere le vicende che lo hanno indotto a errare per terre e mari.
L’Italia era chiamata dai Greci Esperia, terra del tramonto, posta ad Occidente, ma anche Enotria, ovvero terra del vino, che indicava all’inizio una zona dell’Italia meridionale, dalla Campania alla Calabria, abitata in antico dalla popolazione degli Enotri, fin dal XV secolo a. C.
Dal nome di un antico re degli Enotri, Italo, deriverebbe il nome di Italia, almeno secondo quanto scrive Aristotele nel trattato Politica. Ma l’etimologia del termine Italia è incerta. Alcuni linguisti credono che gli Itali adorassero il vitello (vitulus in latino) e che da quel culto derivasse il nome.
Ebbene, proprio questa terra, l’Italia, è destinata ai Troiani. Ma l’ira di una dea, Giunone, impedisce l’approdo alle coste. Così i fuggiaschi naufragano sui lidi del Nord Africa. La missione di Enea troverà allora l’ostacolo maggiore, perché il Troiano incontrerà la regina cartaginese Didone e si innamorerà di lei.
Mentre vaga nelle ignote terre africane, Enea s’imbatte nella madre Venere, sotto sembianze di una donna mortale. Senza sapere la sua identità, l’eroe le chiede in quale luogo siano giunti lui e i compagni di viaggio. La dea, vestita con armi di «vergine spartana», lo informa che si trova nel territorio dei Libici, «razza indomabile in guerra», ove governa la regina Didone, salpata dalla città di Tiro per sfuggire al fratello Pigmalione che ha ucciso il cognato Sicheo, «fra i Fenici il più ricco di terre,/ dalla misera donna amato di grandissimo amore».
Venere racconta al figlio l’atroce delitto di Pigmalione che, accecato dall’oro, uccide l’amato della sorella davanti agli altari, ma nasconde a lungo l’infame assassinio. Nel sonno Sicheo appare a Didone rivelando quanto accaduto e consigliandole di lasciare la patria. La donna parte con i compagni, dopo essersi impadronita dei tesori di Pigmalione. Approda nelle terre africane e contratta con gli autoctoni quanto suolo si possa «circoscrivere/ con la pelle di un toro». Su quel terreno sorge Cartagine. Queste sono le vicende che Venere racconta ad Enea, del tutto ignaro di aver dinanzi la madre. Dopo di che, alla dea che chiede dove sia diretto, Enea risponde:
Se rimontando alle origini prime io narrassi, e tu, dea,
avessi pazienza di ascoltare gli annali dei nostri tormenti,
Vespro farebbe in tempo a velare l’Olimpo e riporre il giorno.
Noi dall’antica Troia (se mai alle vostre orecchie
è giunto il nome di Troia) qua e là sbattuti per mari
remoti, una tempesta ci ha spinto sulle coste della Libia.
Sono il pio Enea, e porto con me sulle navi
i Penati sottratti al nemico, io famoso di là dalle stelle.
Cerco l’Italia: la patria che il sommo Giove ci destina da sempre.
L’eroe, salvando gli dei protettori della famiglia, mostra fin dalle prime battute della storia la sua devozione nei confronti del Cielo. La madre, non sopportando più il lamento di Enea, gli indica la strada per raggiungere il palazzo della regina, rassicurandolo che ha senz’altro grandi protettori tra i Celesti, altrimenti non sarebbe salvo. I segni dei dodici cigni che «l’aquila di Giove […]/ scompagina per il cielo aperto» sono inequivocabili.
Venere si allontana, rivelando finalmente la sua natura divina e la sua vera identità. Solo allora, quando Enea la riconosce ormai lontana, con tono lamentoso la rimprovera per il fatto che non permetta a lui, figlio, di stringerle la mano e di parlarle con tono sincero e affettuoso. I versi latini con cui si esprime Enea con la madre («[…] cur dextrae iungere dextram/ non datur ac veras audire et reddere voces?» ovvero «perché non mi è concesso di stringere la mia mano alla tua e di ascoltare parole vere e di risponderti?») anticipano le parole con cui il padre Anchise, defunto e nei Campi Elisi (nel sesto libro), si rivolge al figlio disceso nell’Ade per incontrarlo («[…] datur ora tueri,/ nate, tua et notas audire et reddere voces?» ovvero «mi è concesso ora, o figlio, di vedere il tuo volto e di ascoltare la tua voce e di risponderti?»). La dea ricopre di nebbia il figlio perché possa giungere senza impedimenti alla reggia.
Enea giunge finalmente nella città mentre tutti si prodigano ad innalzare le mura e ad erigere la rocca. Nessuno si accorge di lui, avvolto dalla foschia. L’eroe invidia quel popolo che già vede sorgere la propria città. I Punici disseppelliscono il teschio di un cavallo selvaggio, al centro della città, segno predetto dalla regina Giunone. La città appena sorta sarà invincibile in battaglia e opulenta in guerra. Enea vede istoriate sul tempio le vicende della storia della roccaforte troiana, ormai note in tutto il mondo.
L’eroe vede la regina punica, bellissima, assisa sul trono, immersa in una folla immensa. Anche altri Troiani arrivano alla reggia per implorare pietà. Il primo a parlare con Didone è il più anziano, Ilioneo, che chiede di risparmiare la flotta e il loro popolo sventurato, che non è in Africa per depredare:
Nostro re è Enea: di lui nessuno più giusto
fu per pietà, né più grande nelle armi di guerra. Se i fati
ci conservano quest’uomo […] niente
timore: d’essere stata la prima a beneficarlo
non ti pentirai.
Didone si mostra generosa, lei che ha conosciuto il dolore e i patimenti si offre di aiutare i naufraghi nel caso in cui intendano ripartire verso l’Italia o di ospitarli, se vogliano fermarsi in quella città: propone addirittura ai Troiani di stanziarsi su quella terra alla pari con loro:
E se volete restare con me in questi regni, da uguali,
vostra è la rocca che innalzo. Tirate in secco le navi.
Per me tra Tirio e Troiano non si farà differenza.
Didone mostra qui tutta la sua humanitas che si traduce nell’abbattimento di ogni barriera fra sé e l’altro per comunicare. Etimologicamente «comunicare» significa appunto «mettere in comune», «compiere il proprio dovere con gli altri» (da cum cioè «insieme» e munus ovvero «ufficio, incarico, dovere»). Nella famosa commedia di Terenzio Heautontimorumenos (in italiano Il punitore di se stesso) il personaggio Menedemo mostra il suo interesse alla persona altrui: «Homo sum: humani nihil a me alienum puto» ovvero «sono uomo; e di quello che è umano nulla io trovo che non mi riguardi».
La nube che nasconde Enea si dissolve, l’eroe appare fulgente, «nel viso/ e nelle spalle simile ad un dio». Enea allora parla alla regina, ringraziandola per l’accoglienza e la disponibilità di associare loro, appena approdati, al regno. Auspica per lei la benevolenza degli dei. Didone, «esperta di dolore», ha «imparato a soccorrere chi soffre»: accompagna Enea in visita nel palazzo e invia cibo per sostentare i Troiani che ancora sono alle navi.
Intanto Venere convoca il figlio Amore (Cupido) chiedendogli di assumere le sembianze di Ascanio, figlio di Enea, e di suscitare in Didone un folle amore per l’eroe troiano, mentre il vero Ascanio viene portato lontano dalla dea nei boschi dell’Idalio. I Troiani sono invitati al banchetto serale e Cupido, seduto sulle ginocchia della regina, le toglie la memoria di Sicheo e le insinua l’amore per Enea.
Didone vuole conoscere le vicende di Priamo, di Ettore, di Diomede, di Achille. Infine chiede ad Enea di rompere ogni indugio:
Avanti, raccontaci, ospite, fin da principio le insidie
dei Danai […] e le sventure dei tuoi,
e il tuo errare; che già la settima estate ti trascina
ramingo per tutte le terre e per tutti i mari.
Si conclude così il primo libro dell’Eneide e si apre il secondo, una sorta di Iliade in sintesi, con gli avvenimenti che hanno condotto alla caduta della roccaforte di Troia grazie all’inganno del cavallo. Il lungo ricordo delle vicende che hanno portato i Troiani sulle coste libiche ci accompagnerà per tutto il secondo libro, ma anche nel terzo, ove Virgilio racconterà le lunghe vicissitudini dei compagni nel Mediterraneo.