Lula non stravince. Cade la narrazione dei progressisti
Sembrava che Lula dovesse vincere già al primo turno delle elezioni presidenziali in Brasile, contro Bolsonaro, odiato da tutti i media. E invece Lula è in vantaggio, ma deve affrontare il secondo turno fra un mese. Inoltre il Partito Liberale di Bolsonaro vince al Congresso e si aggiudica i governi di gran parte degli Stati.
Sembra che la poderosa grancassa propagandistica delle grandi reti mediatiche occidentali di orientamento progressista/woke (cioè praticamente quasi tutte) ancora una volta come in altre occasioni (la Brexit, l'elezione di Trump nel 2016) abbia generato un clamoroso effetto boomerang in occasione delle elezioni presidenziali e legislative in Brasile.
Dopo 4 anni di demonizzazione concentrica ai danni del presidente in carica Jair Bolsonaro – additato instancabilmente come “mostro” autoritario para-golpista, Attila distruttore della foresta amazzonica, seminatore di chissà quali stragi per la sua politica liberale e antiemergenzialista in occasione dell'epidemia di Covid-19, affamatore dei poveri, bigotto nemico dei “diritti” delle minoranze – tutti i sondaggi “autorevoli” prevedevano una vittoria al primo turno per Luiz Ignacio Lula da Silva, ex presidente di sinistra, leader del Partido dos Trabalhadores poi caduto in disgrazia e incarcerato per corruzione, infine riabilitato. E tutto l'apparato di comunicazione, della cultura e dell'intrattenimento di massa, in Brasile e in Occidente, era diventato un coro festoso, unito nel celebrare il ritorno trionfale dell'”eroe” senza (più) macchia e senza paura, nell'attesa fiduciosa del “knock out” ai danni dell'”impresentabile”, che appariva impossibile venisse votato ormai da altri che da barbare minoranze di deplorables.
Il clima di insoddisfazione diffuso nel paese per la crescente crisi economica legata a post-Covid, aumento delle materie prime e conflitto russo-ucraino era visto, in questa ottica, come il naturale prodromo a una bocciatura di massa per Bolsonaro, in nome di un'alternativa nel segno di un ritorno agli “anni d'oro” in cui la più popolosa nazione dell'America Latina era assurta a potenza economica mondiale, accrescendo sensibilmente il suo tenore di vita medio.
I risultati di domenica sera hanno invece in larga parte sconvolto quelle previsioni, rivelatesi per molti aspetti un classico wishful thinking, proiezione dei desideri di chi le avanzava che, divenuta narrazione egemone, a sua volta distorceva i sondaggi, generando in molti sostenitori del presidente uscente la tendenza a negare di esserlo, per timore di subire a loro volta la gogna della demonizzazione. Infatti al primo turno presidenziale Lula ha sì prevalso, ma molto più di misura di quanto fossero le attese (48,43% contro 43,20%, poco più di cinque punti), e soprattutto non è riuscito a imporsi al primo turno, e dovrà affrontare il ballottaggio. I sondaggi lo danno comunque vincente, anche perché su di lui potrebbero confluire i voti degli sfidanti “centristi” minoritari, ma l'effetto psicologico sarebbe molto differente. Una sua vittoria al secondo turno non sarebbe una marcia trionfale indiscussa, e il risultato comunque amplissimo di Bolsonaro dimostra che esiste una parte molto consistente della società brasiliana decisa a difendere ad ogni costo i suoi principi etici e i suoi interessi contro quella che sarebbe prevedibilmente una deriva radicalmente relativista, statalista e assitenzialista.
Ma non è tutto. Nelle elezioni legislative il Partito liberale (PL) di Bolsonaro e i suoi alleati hanno conquistato la maggioranza sia alla Camera che al Senato federale, aumentando i suffragi rispetto al 2018. E hanno vinto in 8 elezioni dei governatori degli stati federati, con la realistica prospettiva di guadagnare altri 8 governatorati nei ballottaggi, e il controllo del 60% del territorio, incluso probabilmente anche lo Stato di Saô Paulo, centro nevralgico dell'economia del paese. Quindi anche se Lula prevalesse al secondo turno, sarebbe un'“anatra zoppa”, costretto a fare i conti con un legislativo che potrebbe respingere i suoi provvedimenti più importanti, e con una maggioranza di governatori ostili. Come hanno subito notato alcuni commentatori brasiliani, il “bolsonarismo” è in grado di sopravvivere e dare battaglia anche nel caso in cui Bolsonaro venisse sconfitto. Infine, i mercati hanno reagito molto positivamente alla tenuta di Bolsonaro e della destra, nella speranza di privatizzazioni delle grandi aziende a partecipazione pubblica, e di evitare l'incremento inevitabile di spesa pubblica e tasse che sarebbe inevitabilmente conseguente alla vittoria del PT.
Insomma, tutto lo scenario virtuale costruito dalla comunicazione progressista è franato in un batter d'occhio davanti alla realtà di un paese grande e complesso, e a linee di faglia politiche che sono irriducibili a semplificazioni manichee e moralistiche, ma rispondono invece in gran parte all'alternativa tra una sinistra fortemente populista come in gran parte del Sud America e una destra saldamente fondata sulla libertà di mercato da una parte, e sulla difesa dei “principi non negoziabili” in materia di vita, famiglia, educazione dall'altra. Una destra che, anche negli stati meno economicamente avanzati della Federazione, raccoglie consensi tra ceti che sperano di accrescere il proprio benessere non con sussidi e posti pubblici, ma scommettendo sulla propria iniziativa individuale. E che raccoglie l'adesione altrettanto solida di una fascia molto religiosa della società (cattolica ed evangelica) fermamente contraria all'aborto e spaventata dal dilagare dell'indottrinamento Lgbt, decisa a difendere, come in larga parte degli Stati Uniti, la libertà delle famiglie di educare i propri figli e la libertà di espressione. Se, nonostante tutto ciò, nel ballottaggio del 30 ottobre Lula avrà la meglio, non potrà ignorare questa complessità, non potrà imporre un'agenda ideologizzata né facili scorciatoie.
Infine, nel contesto mondiale segnato dalla drammatica contrapposizione frontale tra Occidente trainato dall'amministrazione Biden e Russia putiniana, la “narrazione” progressista occidentale sulle elezioni brasiliane ha accuratamente rimosso un aspetto per essa molto imbarazzante: tanto il presidente uscente quanto il suo possibile successore non sono affatto schierati con le sanzioni a Mosca e l'invio di armi all'Ucraina, ma mantengono fermamente una posizione di neutralità (simile a quella di quasi tutti i governi sudamericani), che si è tradotta nei mesi scorsi, con il forum dei BRICS, nella coagulazione di una sorta di schieramento alternativo a quello egemonizzato da Washington. Se Lula vincerà, forse sarà tatticamente portato a concedere qualcosa agli yankees, ma non potrà né vorrà cambiare la sostanza della collocazione internazionale del paese. Il bell'affresco manicheo del Brasile progressista prossimo venturo rimarrà, in ogni caso, nella fantasia degli abili “narratori” woke globalisti.