L'Ue si intromette nella riforma fiscale Usa
Il piano di riforma fiscale voluto da Donald Trump può diventare (una volta approvato) il più grande taglio di tasse dai tempi di Reagan. Ma cinque ministri europei (fra cui Padoan) chiedono al governo federale di rispettare gli accordi internazionali, accusando alcune proposte di protezionismo.
Il piano di riforma fiscale voluto da Donald Trump potrebbe diventare, una volta approvato, il più grande taglio di tasse dai tempi di Reagan. Approvato dal Senato, attende ora la sua votazione alla Camera, dove la maggioranza è sempre dei Repubblicani. La Camera ha un suo piano fiscale, leggermente differente rispetto a quello del Senato. Ora è dunque in corso una fase di “allineamento” fra le due versioni, prima che la riforma finisca sulla scrivania del presidente per la firma finale. Ma, oltre all’opposizione interna al Partito Repubblicano e quella del Partito Democratico, il Congresso, nel suo insieme, deve ora fronteggiare un oppositore imprevisto: cinque ministri delle finanze dell’Unione Europea. Cosa c’entrano i governi europei con una legge interna agli Usa? Accusano i Repubblicani di fare gli interessi dell’America, in base al principio America First, facendo concorrenza sleale alle aziende dell’Ue e in violazione dei trattati che sono alla base del Wto. In sintesi, accusano gli Usa di protezionismo e invitano il Congresso a tenerne conto. Ma oltre a questa accusa ufficiale, nei ministri europei c’è una preoccupazione di fondo, inconfessata: quella di perdere competitività e attrattiva in confronto con gli Usa.
Anzitutto, in questo ultimo (in ordine di tempo) braccio di ferro transatlantico, c’è qualcosa di inedito. Si tratta infatti di una lettera senza precedenti, per toni (ammonitori) e contenuti, inviata a un parlamento di un paese non europeo che sta ancora discutendo una legge fiscale. In Italia siamo ormai forse abituati a farci giudicare le leggi finanziarie dagli altri membri dell’Ue e in particolar modo dalla Germania. Ma gli Usa non sono membri dell’Unione, non hanno sottoscritto alcun patto di stabilità fiscale con i paesi dell’eurozona, non hanno mai adottato l’euro, non partecipano in alcun modo al processo decisionale europeo. La lettera dei ministri delle finanze dell’Ue, firmata da Peter Altmaier (Germania), Bruno Le Maire (Francia), Philip Hammond (Regno Unito), Cristobal Montoro Romero (Spagna) e il nostro ministro dell’economia Pier Carlo Padoan, è indirizzata al segretario Usa del Tesoro, Steven Mnuchin. I cinque ministri rappresentano le cinque più grandi economie del vecchio continente, incluso il Regno Unito che, pur essendo in uscita, fa e farà ancora parte dell’Ue fino al 2019. In pratica si fa pressione sul governo federale, perché questo, a sua volta, faccia presente al Congresso quali sono gli interessi europei da rispettare. La missiva premette che la politica fiscale è un aspetto importante di un paese indipendente e sovrano. Ma… deve rispettare gli accordi internazionali. Una portavoce del Congresso Usa ha risposto che già i legislatori hanno ben studiato come portare a termine la riforma nel rispetto delle regole del commercio internazionale. Anche una portavoce del Tesoro ha dato una risposta generica, affermando come il ministero stia lavorando a stretto contatto con il Congresso e “apprezzi” le puntualizzazioni dei ministri europei. E’ probabile, dunque, che la lettera europea non sia destinata a condizionare troppo il dibattito in corso.
Le critiche riguardano proposte. La legge non è ancora stata approvata. Una delle contestazioni principali riguarda la versione della riforma in discussione alla Camera, neppure quella già votata in Senato. Soprattutto una proposta di tassare al 20% i prodotti venduti dalle filiali americane di compagnie straniere (europee, giapponesi, cinesi…) sul suolo statunitense. Questa è considerata, a ragion veduta, una misura protezionistica. Un’altra contestazione riguarda la proposta di applicare una tassa una tantum del 10% sul rientro dei capitali (14% secondo la versione della Camera). Viene criticata anche l’idea che la nuova legge garantisca incentivi alle aziende americane che producono ed esportano all’estero beni non materiali, una misura giudicata come una forma di “dumping” fiscale. Queste ultime proposte non danneggerebbero neppure le aziende europee negli Usa, ma semplicemente vengono considerate concorrenza sleale.
Ma, appunto, era proprio necessario entrare a gamba tesa nel dibattito politico statunitense su una legge che deve ancora assumere la sua forma definitiva? Solitamente, se una norma viola trattati o accordi internazionali, si ricorre a un arbitrato. Sarà poi un giudice a decidere. Oppure saranno le aziende stesse a esprimere il loro giudizio “coi piedi”: se le condizioni negli Usa dovessero risultare troppo svantaggiose, sono libere di chiudere su quel territorio e aprire filiali altrove. E’ però veramente difficile capire con che diritto dei ministri intervengano in un parlamento non loro per rivendicare gli interessi dei loro paesi.
La natura atipica dell’intervento europeo indica semmai una inconfessata paura di fondo: che gli Usa diventino troppo competitivi. La corsa ad abbassare le tasse riguarda ormai molti competitori degli Stati Uniti. Non l’Italia e nemmeno la Francia, che mantengono tasse sulle aziende superiori al 35%, ma le altre potenze concorrenti pianificano tagli o li hanno già effettuati. Il Giappone mira a ridurre la tassa sulle aziende al 20% (oggigiorno è quasi al 30%), il Regno Unito l’ha ridotta al 19%. La Cina sta (secondo il Wall Street Journal) studiando un piano di contingenza per reggere l’impatto della riforma fiscale statunitense. Insomma, ancora prima della sua approvazione, la riforma ha già innescato un circolo virtuoso di riduzione delle aliquote fiscali. Virtuoso dal punto di vista dell’imprenditore contribuente. Impegnativo dal punto di vista dei governi, che devono mantenere bilanci in equilibrio anche a fronte di (molto probabilmente) minori entrate. Paesi come l’Italia, ad alta tassazione, risulteranno ancora meno competitivi. Quel che i governi europei temono ancor di più, poi, è l’unilateralismo della nuova politica americana. Anche se nessuna politica fiscale è mai stata decisa “collegialmente”, l’Ue teme un’amministrazione americana che si comporta da battitore libero, senza chiedere niente a nessuno, su Gerusalemme, sul clima e sulle regole del commercio.