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TERRORISMO

L'Isis rialza la testa in Siria e Iraq

Nel primo trimestre del 2021 solo in Iraq ci sono stati 566 attacchi dell'Isis, e in Siria le cose non vanno meglio. Nato e paesi occidentali a parole dicono di lottare contro i terroristi islamici ma in realtà sono in ritirata da tutti i fronti caldi. E gli Usa combattono solo le milizie filo-iraniane.

Esteri 01_07_2021 English Español

Lo Stato Islamico in Iraq e Siria ha perso il controllo del territorio da diversi anni ma non è scomparso. Anzi, negli ultimi mesi ha ripreso a condurre azioni belliche di limitata intensità in Siria Orientale e nell’Iraq nord-occidentale.
Nel marzo scorso il rapporto del Middle East Institute (MEI) US Policy and the Resurgence of ISIS in Iraq and Syria – affermò che l’IS “dimostra sia la capacità che la volontà di riprendere il territorio, la popolazione e le risorse, sia in Siria che in Iraq”.

Secondo gli analisti militari iracheni, gli attacchi stanno diventando sempre più complessi e sofisticati, con operazioni che prendono di mira i posti di blocco e le installazioni dell’esercito iracheno: nel primo trimestre del 2021 sono state segnalate 566 azioni; e una recente valutazione del Terrorism Research & Analysis Consortium (TRAC) ha rivelato che nel solo agosto 2020 l’IS ha rivendicato in Iraq più di 100 attacchi, con un aumento del 25% rispetto al mese precedente.
In Siria Orientale numerose incursioni hanno colpito anche le forze delle Forze Democratiche Siriane (SDF), milizie curde e arabe sostenute dagli USA: nel solo mese di agosto 2020 l’IS ha firmato in tutta la Siria 126 attacchi contro i 144 effettuati in tutto il 2019.

Lo stesso Pentagono del resto ha valutato che l’uccisione del califfo Abu Bakr al-Baghdadi non abbia avuto alcun impatto sulle operazioni dei jihadisti. Il movimento jihadista continua a portare avanti il reclutamento online e ad avere finanziamenti e flussi di cassa considerevoli, con riserve stimate dal MEI tra i 50 e i 300 milioni di dollari. Le Nazioni Unite ritengono che IS possa contare attualmente su più di 10.000 combattenti tra Iraq e Siria, 18 mila secondo le stime del Pentagono.

In Africa, dove si è riorganizzato negli ultimi anni, le milizie legate al Califfato sono particolarmente attive nel Sinai egiziano, nel Sahel (dove insieme ai “rivali del jihad” di al-Qaeda stanno destabilizzando gli stati della regione) ma anche in Nigeria e in Mozambico, paese quest’ultimo che sta ricevendo aiuti militari anche dall’Europa per contrastare l’insurrezione islamista nella provincia settentrionale di Cabo Delgado, ricca di gas.
Il 25 giugno in Mali un attacco suicida contro una pattuglia della Missione multidimensionale integrata delle Nazioni Unite per la stabilizzazione del Mali (Minusma, che schiera 13.289 soldati e 1.920 agenti di polizia internazionali) ha provocato il ferimento di 12 caschi blu tedeschi e uno belga.

“Dobbiamo continuare lo sforzo volto a ridurre la capacità dell’IS di organizzare attività e propaganda, e lo facciamo" ha detto il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, anche se di fatto l’Alleanza Atlantica non è coinvolta in nessuna operazione anti-jihadisti dopo il ritiro (o per meglio dire, la fuga) ormai completato dall’Afghanistan. Concetto ribadito dal segretario di Stato statunitense, Antony Blinken, in visita a Roma, anche se poi gli sforzi bellici degli americani in Iraq sono da tempo rivolti più alle milizie scite filo-iraniane nemiche dello Stato Islamico che ai jihadisti.

Il 27 giugno i caccia F-15 ed F-16 di Washington decollati dalle basi nel Golfo hanno lanciato nuovi raid contro milizie filoiraniane al confine tra l'Iraq e la Siria. Secondo il dipartimento della Difesa Usa, le incursioni aeree hanno colpito strutture operative e per lo stoccaggio di armamenti utilizzati dalle milizie filo-iraniane Kata'ib Hezbollah e Kata'ib Sayyid al Shuhada. Il raid sarebbe la risposta ai recenti attacchi effettuati dalle milizie filo iraniane con droni contro le basi della Coalizione in Iraq e i in particolare quella di Erbil, nel Kurdistan Iracheno, che ospita anche militari italiani che addestrano le forze curde.
Gli attacchi americani hanno fatto infuriare il premier di Baghdad, Mustafa Al Khadimi, che ha lamentato la "flagrante violazione" della sovranità territoriale del suo Paese. Proteste a cui gli USA sembrano impermeabili. Lo stesso Blinken a Roma ha precisato che “con quelle azioni abbiamo dimostrato che il presidente Biden è pronto ad agire e a difendere gli interessi nazionali. Speriamo che il messaggio sia chiaro".

E che gli interessi degli USA siano maggiormente tesi a combattere l’Iran e i suoi alleati che a stroncare il jihadismo sunnita è evidente fin dalla precedente amministrazione guidata da Donald Trump.
Ai raid statunitensi hanno risposto i lanci di razzi contro una base Usa nell'est della Siria, dove peraltro la presenza americana è non solo illegittima (il governo di Damasco li considera nemici e invasori) ma è tesa a impedire alle forze governative siriane di riprendere il possesso dei pozzi petroliferi di quella regione.

Il 28 giugno, il summit degli 83 stati membri della Global Coalition to Defeat Da’esh tenutosi a Roma, ha evidenziato, almeno a parole, la preoccupazione per la rinnovata vitalità dell’IS e delle altre forze jihadiste.
Nei fatti però l’Occidente sembra essersi “distratto” dalla guerra ai jihadisti. La NATO e gli USA stanno lasciando l’Afghanistan in balìa dei talebani, i francesi hanno deciso di ridurre la presenza militare nel Sahel mentre in Iraq e Siria come in Africa si punta al massimo a dare una mano ai deboli governi locali più che ad aumentare il coinvolgimento militare nelle operazioni anti-insurrezionali.

Viene da chiedersi dove sia finito lo slogan ripetutoci per quasi 20 anni fino allo sfinimento che voleva le truppe occidentali dispiegate su tutti i più lontani fronti del jihad per tenere lontano il terrorismo dalle nostre case.
Del resto oggi gli USA considerano minacce primarie Cina e Russia e si disinteressano del Mediterraneo e dell’Africa mentre gli europei non hanno né la capacità politica e militare di individuare da soli i propri avversari “prioritari” né di perseguire strategie e impegni militari autonomi prolungati.

Nei giorni scorsi il “Terrorism Situation and Trend Report” redatto dall’Europol ha fatto il punto sulla sempre vivace campagna di proselitismo in atto anche via web nel vecchio Continente e sugli attacchi di matrice jihadista ancora perpetrati in Europa, dieci nel 2020, concentrati soprattutto in Francia e Germania.
L’ultimo in ordine di tempo si è verificato nella città tedesca di Wurzburg, in Baviera, dove un somalo 24enne arrivato in Germania nel 2015 con i flussi illegali (definito ancora una volta uno “squilibrato”) armato di un coltello da cucina ha attaccato i passanti in pieno centro gridando “Allah u Akhbar”, uccidendo tre donne e ferendo altre cinque persone.

"Il fenomeno dell'Isis è ancora in piedi e rimane una minaccia" anche con la fine del califfato geografico in Iraq e Siria, "perché sostenuto da un'ideologia, l'estremismo islamico, dunque non può finire. Magari può assumere in questa fase altre forme, altre connotazioni più di facciata, ma la sostanza rimane quella, il revanscismo del mondo islamico, quello che non accetta nessun tipo di sudditanza. Il pericolo generale dell'Isis esiste perché non sono venuti meno i concetti ideologici su cui si fonda l'estremismo Islamico", ha detto all'agenzia di stampa AdnKronos l'ex direttore del Sisde Mario Mori, uno dei più importanti esperti europei di terrorismo.