Letta sfascia il Pd: dal campo largo al campo minato
Il segretario Pd Letta è riuscito nell’impresa di scontentare praticamente tutti, tranne i suoi fedelissimi, dopo aver trasformato il cosiddetto campo largo in un campo minato. Durante la direzione del partito sono volati i coltelli e alla fine Letta ha dovuto imporre la sua linea provocando la frattura con la corrente Base Riformista. Tutti sul piede di guerra.
Dopo la composizione delle liste il Pd somiglia sempre più a una polveriera pronta a esplodere da un momento all’altro. Il segretario Enrico Letta è riuscito nell’impresa di scontentare praticamente tutti, tranne i suoi fedelissimi, dopo aver trasformato il cosiddetto campo largo in un campo minato.
Durante la riunione della direzione del partito, slittata più volte nella giornata di Ferragosto, sono volati i coltelli, come si dice in questi casi, e alla fine Letta ha dovuto imporre la sua linea provocando la frattura con la corrente Base Riformista, del Ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, che vede escluso dalle liste Pd uno dei suoi condottieri più rappresentativi, Luca Lotti, ex renziano, non ricandidato. I malumori serpeggiano nell’associazionismo e sui territori. La senatrice Monica Cirinnà, inserita in un collegio tutt’altro che blindato e quindi a rischio di non rielezione, dopo aver criticato le scelte della segreteria dem, ha deciso di correre ugualmente (“Accetto lo schiaffo ma combatto”).
Il costituzionalista Stefano Ceccanti e Vincenzo Amendola, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri con delega agli affari europei e figura riconosciuta a livello internazionale, nonché protagonista del Recovery Fund, vengono messi da parte per fare posto ad alleati senza voti come Luigi Di Maio o Sergio Fratoianni, a virologi catastrofisti come Andrea Crisanti (candidato nella circoscrizione degli italiani all’estero) e Pier Luigi Lopalco e alle sindacaliste Annamaria Furlan e Susanna Camusso.
In regioni da sempre molto “rosse”, come la Basilicata, Letta sacrifica l’ex governatore Marcello Pittella, membro di una potente famiglia locale che ha in mano il potere vero e che ora è pronta a voltare le spalle al partito. Le donne dem di Potenza, inserite in lista ma in posti non di primo piano, scrivono un comunicato per annunciare il rifiuto delle candidature. Nel web e sui social esplode l’ira di militanti e rappresentanti dem sul territorio, che si sentono traditi e si dichiarano indisponibili ad accettare le scelte della segreteria nazionale.
Tutti sul piede di guerra, dai sindaci alle federazioni. Liti furibonde in un clima da tutti contro tutti e un segretario messo sul banco degli imputati per non aver saputo gestire né le alleanze né le liste. Gli unici ad avere il paracadute, infatti, sono i fedelissimi di Letta e il segretario stesso, candidato come capolista in Lombardia e Veneto. Il segretario dem fa quello che fece Renzi prima di lui: blindare i gruppi parlamentari in vista del congresso che tenterà di scalzarlo per far posto al governatore dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini, dato in pole position per la successione.
Ma l’agonia a sinistra non si ferma al Pd, che pure, come detto, ha mille gatte da pelare e si presenta ai suoi elettori lacerato e privo di identità. Pure Impegno civico del Ministro degli esteri, Luigi Di Maio vive ore da incubo perché starebbe per dover rinunciare al simbolo di “Impegno civico”, che condivide con Bruno Tabacci. L’ex sindaco di Marino, Fabio Desideri, consigliere regionale del Lazio, attraverso i suoi avvocati, ha notificato formale diffida a presentare le liste di Impegno civico, comunicando a Di Maio e Tabacci che in caso di presentazione delle liste sarà immediatamente presentato ricorso nei termini di legge. Infatti, Impegno civico è un’associazione nata, con rogito notarile, nel 1994, che si è presentata alle elezioni nel 1996. È vero che per lo scaltro Giggino l’importante è la cadrega, con qualsiasi maglia, ma bisogna salvare almeno le apparenze e, in caso di forzata rinuncia al simbolo, diventerebbe inevitabile per lui confluire nel Pd e chiedere il voto ai potenziali elettori con la bandiera del “partito di Bibbiano”. Ammesso che i militanti dem lo votino.
Le beghe interne alla sinistra rendono ancora più fuori luogo la demonizzazione e la delegittimazione dell’avversario che Letta e i suoi conducono da settimane nei confronti di Giorgia Meloni, accusata di retaggi fascisti. Il fascismo, prima ancora che un’ideologia, peraltro archiviata e non ripetibile nelle forme di un secolo fa, è un metodo autoritario di gestione della dialettica politica fondato sul disconoscimento dell’identità di tutto ciò che è diverso da te. Tristemente, appare proprio questo, almeno finora, il tratto dominante della campagna elettorale del Pd, ritrovatosi orfano del draghismo e ora in cerca di elementi unificanti per motivare una base sempre più insofferente ai giochi di potere e indifferente alla retorica della presunta “superiorità morale” della sinistra.