Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Ora di dottrina / 122 – La trascrizione

L’essenza della grazia – Il testo del video

La grazia non è una semplice benevolenza da parte di Dio, ma è creatrice di una qualità nuova nell’anima. In san Tommaso è chiaro che la grazia rende possibile la deificazione, cioè l’elevazione dell’uomo alla vita divina. Una realtà negata da Lutero.

Catechismo 30_06_2024

Oggi è il quinto incontro dedicato al tema della grazia. Ricordiamo il percorso che stiamo facendo. Nel ritorno a Dio, quali sono i tre strumenti, i tre mezzi per ritornare a Dio? Abbiamo visto: la legge, come indicazione della strada; le virtù; la grazia di Dio.

Questi tre aspetti, chiaramente, non sono sullo stesso piano. C’è un ordine di importanza, c’è una gerarchia. Tuttavia tutti e tre sono fondamentali per il ritorno a Dio.

Ci occupiamo della quæstio 110 della I-II della Somma Teologica. Stiamo commentando le quæstiones che san Tommaso dedica al tema della grazia. E oggi mettiamo a tema l’essenza della grazia. Dopo l’incontro introduttivo, abbiamo visto per tre incontri consecutivi la necessità della grazia (vedi qui, qui e qui). perché abbiamo bisogno della grazia in sé stessa, perché la natura umana ha bisogno della grazia per essere risanata, perché anche chi è già in grazia ha ulteriormente bisogno della mozione della grazia. Questi sono i tre argomenti che abbiamo visto.

Oggi vediamo che cos’è la grazia, che cosa intendiamo quando parliamo di grazia. Iniziamo dall’articolo 1 che si domanda se la grazia ponga qualcosa nell’anima. Il tema è importante perché alcune deviazioni che abbiamo avuto nella storia della Chiesa e che un po’, in sottofondo, stanno riemergendo, vedono nella grazia una semplice benevolenza da parte di Dio che, potremmo dire, “ci usa grazia”, diventa benevolo nei nostri confronti. Da questo punto di vista la grazia apparterrebbe primariamente, ma esclusivamente a una disposizione divina, cioè Dio nei nostri confronti. Ma questa linea non mette a tema, non affronta la questione se la grazia sia effettivamente qualche cosa che ha a che fare con noi, cioè che entra in noi.

Dall’altra parte, un altro modo per non comprendere il senso profondo, cattolico, della grazia è quello di ritenere che tutto sia grazia: anche, per esempio, il cibo, l’aria che respiriamo; in questo senso, si tratta di un senso più esteso e dunque meno preciso del termine “grazia”, cioè grazia nel senso di tutto ciò che gratuitamente è dato da Dio. Non sono due posizioni sbagliate in sé stesse: diventano sbagliate quando pretendono di esaurire il senso della grazia.

San Tommaso ce ne dà una visione più completa, più articolata, che adesso vediamo nell’art. 1, che appunto si domanda se la grazia sia una compiacenza divina – cioè Dio che volge il suo sguardo benevolo su di noi – o ci sia qualcosa che invece entra in noi e ci trasforma dall’interno. «Derivando il bene delle creature dalla volontà di Dio, conseguentemente dall’amore con cui Dio vuole il bene della creatura, profluisce qualche bene nella creatura stessa. Invece la volontà dell’uomo viene mossa dal bene preesistente nelle cose: e così l’amore dell’uomo non causa totalmente la bontà delle cose, ma la presuppone o in parte o in tutto» (I-II, q. 110, a. 1). San Tommaso ci sta dicendo che c’è una differenza quando parliamo di grazia, di avere grazia, di essere disposti in un certo modo, in Dio e nell’uomo. Perché? Scrive san Tommaso: «Derivando il bene delle creature dalla volontà di Dio». Quindi Dio non è “disposto” benevolmente verso le creature perché c’è in loro qualcosa di buono che precede questo sguardo benevolente, perché tutto il bene che esiste deriva da Dio. Non è così nell’uomo. Noi questa benevolenza l’abbiamo perché ci rivolgiamo verso un bene che è già presente nell’altra persona verso cui siamo benevolenti, alla quale, per così dire, diamo grazia, concediamo grazia. Sono due prospettive diverse, ma teniamole sullo sfondo e cerchiamo di capire perché sono importanti.

San Tommaso spiega: «È quindi evidente che ogni atto d’amore da parte di Dio fa nascere nella creatura un bene che è causato e non è mai coeterno all’eterno amore» (ibidem). Qui san Tommaso coglie il punto, che è questo: «Ogni atto d’amore da parte di Dio fa nascere nella creatura un bene che è causato» da Dio stesso. Dunque, quand’anche noi prendessimo il discorso della grazia come una particolare benevolenza divina nei confronti degli uomini, dal punto di vista della mera compiacenza divina, dovremmo però trarre le conseguenze di questa compiacenza divina. Cosa vuol dire? Vuol dire che Dio ha questo sguardo benevolente e, mentre ha questo sguardo benevolente, crea quel bene nella persona verso cui è benevolente. La ragione è radicale, metafisica: non esiste un bene al di fuori di Dio.

Dunque, Dio si rivolge, si china con benevolenza verso la sua creatura precisamente perché quella sua creatura è un bene, quel bene che Lui stesso ha creato. Questo dal punto di vista naturale, ma anche dal punto di vista della grazia. Dunque, questa compiacenza divina non è un mero sentimento, un mero volgersi, ma crea quel bene verso cui la benevolenza divina si volge.

Infatti, san Tommaso dice: «C’è un amore universale con il quale “Egli ama tutte le cose esistenti”, come dice la Scrittura» (ibidem). Perché? Perché le cose esistenti sono un bene che Egli stesso ha posto in essere. Pensate al capitolo 1 del libro della Genesi. Dio crea e ogni volta viene detto: «era cosa buona». Da dove viene la bontà della creazione? Dal fatto che Dio stesso ha posto la creazione, il bene di quella creazione.

Ma, precisa Tommaso, «c’è poi un amore speciale con cui Dio innalza la creatura razionale alla partecipazione del bene divino, sopra la condizione della natura» (ibidem). È un’altra forma di bene, «un amore speciale», con il quale Dio non solo dà una natura buona, delle buone qualità alla sua creatura, ma chiama alcune di queste creature – quelle puramente spirituali, cioè gli angeli, e quelle spirituali unite a una corporeità, cioè gli uomini – a partecipare al bene divino. Dunque, è una benevolenza particolare.

Conclude san Tommaso: «Quando si dice che uno ha la grazia di Dio, si vuole indicare un dono soprannaturale prodotto da Dio nell’uomo» (ibidem). Dunque, non è una pura e semplice benevolenza divina. Quando si dice “ho la grazia del mio superiore” cosa vuol dire? “Ho la benevolenza del mio superiore”. Ma questo non crea qualcosa nella persona, anzi lo presuppone. Nei confronti di Dio le cose si invertono perché Dio è il fondamento di ogni essere. Al di fuori di Dio non c’è nulla, e nulla di buono. E dunque Dio, con questo amore speciale, crea nella persona un dono soprannaturale particolare.

Nella risposta alla prima difficoltà – che limitava il senso della grazia divina alla mera compiacenza di Dio – san Tommaso ribadisce: «Ciò che rende gradito un uomo a un altro è presupposto a tale amore o gradimento; mentre ciò che rende graditi a Dio viene causato dall’amore di Dio, come si è detto» (ibidem). Nell’uomo, vengo gradito, ho grazia presso qualcuno per un bene che ho e che mi attira questa benevolenza, quindi questo bene che ho è presupposto, precondizione della benevolenza di un altro. Nel rapporto con Dio le cose cambiano, si rovesciano. Cioè, è Dio stesso che ci rende graditi a Lui causando in noi il dono della grazia. Intanto è importante capire questo.

In una quæstio successiva, la 112, all’art. 1, san Tommaso dice apertamente che solo Dio può essere causa della grazia, solo Dio è capace di dare questa grazia, in senso assoluto, cioè intesa come qualsiasi bene, perché Dio è fondamento di ogni bene. Ma in senso specifico si tratta di quella grazia particolare che porterà quella certa partecipazione assimilativa alla vita divina, la deificazione.

Adesso entriamo un po’ più direttamente in questa questione, facendo una premessa. Molto spesso si è obiettato alla teologia latina, occidentale e anche a san Tommaso di non avere quella profondità relativa alla grazia che viene invece dal cristianesimo orientale. Il quale parla appunto di deificazione, theosis, mentre noi parliamo di santificazione. Secondo questa critica, ci saremmo spostati più verso il lato morale. Questa è una critica che purtroppo non tiene conto della realtà delle cose; è una critica che non può essere rivolta per esempio alla teologia della grazia così come la troviamo in san Tommaso.

I termini “deificare” e “deiforme” – questo neologismo di un verbo attivo, deificare, e questa aggettivazione, deiforme (da cui divenire deiforme, cioè nella stessa forma di Dio) – li ritroviamo rispettivamente 34 e 51 volte nell’opera di Tommaso. Dunque, non è un termine che gli è scappato una volta, è un termine fondamentale. E non dovrebbe stupire quanti conoscono le fonti di Tommaso. Non si è messo sufficientemente in luce – nonostante il lavoro di molti studiosi –, che san Tommaso conosce molto bene i Padri greci. Pensate che in una sua opera meno conosciuta, la Catena aurea, che è un commentario dei quattro Vangeli attingendo a piene mani da citazioni dei Padri antichi, i Padri più citati, e non di poco, sono i Padri greci, molto più dei latini. Questo cosa attesta? Attesta che san Tommaso conosce molto bene la teologia greca, la teologia orientale, chiaramente quella disponibile al proprio tempo: autori come san Dionigi l’Areopagita, san Giovanni Damasceno, san Gregorio di Nissa sono tutt’altro che estranei a Tommaso. È importantissimo questo, anche in un’ottica di un vero e sano confronto teologico con l’Oriente, anche con l’Oriente non cattolico. In Tommaso questa idea della deificazione c’è ed è centrale, è importante ribadirlo.

Nell’art. 2 san Tommaso riprende le fila di quello che ha spiegato nell’art. 1. «Quando diciamo che uno ha la grazia di Dio, vogliamo indicare che in lui si trova un effetto della gratuita volontà di Dio» (I-II, q. 110, a. 2). Avere la grazia di Dio significa non una mera benevolenza, ma che Dio pone in essere qualcosa, un effetto di questa sua grazia. Cioè Dio, quando dona la grazia, crea. E che cosa crea? Crea, ci dice l’art. 2, una vera e propria qualità dell’anima: Dio, con la grazia, infonde in noi un dono abituale, una qualità nuova della nostra anima, che essa non aveva per natura. Un dono appunto abituale della grazia.

Dunque, la grazia di Dio non è solo una compiacenza divina, ma è una compiacenza divina che crea, che pone in essere una qualità nuova dell’anima. La grazia divina non è quindi nemmeno un moto dell’anima, ma appunto una qualità stabile, un dono abituale. Il che non vuol dire che non porti con sé dei moti.

Infatti, nell’art. 3, san Tommaso si chiede: non è che questa grazia che Dio produce nell’anima, quando ha grazia verso di noi, coincide per caso con le virtù, le virtù infuse? Cioè con le tre virtù teologali (fede, speranza, carità), le quattro virtù cardinali (prudenza, giustizia, fortezza, temperanza), le altre virtù infuse in generale, i doni dello Spirito Santo. Non è per caso questo? San Tommaso dice no, ma non perché questo non c’entri niente. Cerchiamo di capire il suo ragionamento.

Facciamo un’analogia con le virtù umane: che cosa richiedono queste? Le virtù umane richiedono un’anima umana, di cui esse costituiscono i principi operativi, gli abiti operativi. Qualcosa di analogo c’è anche in relazione a virtù infuse e grazia abituale, grazia come qualità dell’anima nuova, sopraggiunta.

Infatti, san Tommaso ci dice: «La virtù di una realtà qualsiasi è relativa a una natura preesistente. Si parla cioè di virtù quando un essere è disposto in conformità con la sua natura» (I-II, q. 110, a. 3). Dunque, la virtù è conseguenza di una natura, vivere conformemente a una natura, che è preesistente nel senso che fa da sostrato delle virtù. È così anche per il rapporto tra grazia e virtù infuse. Spiega Tommaso: «Per le virtù infuse è necessario che esse si ricolleghino a una qualche natura superiore» (ibidem), perché le virtù infuse non possono rifarsi alla natura creata e basta, ma a quella natura creata a cui viene sopraggiunto qualcosa, che san Tommaso chiama natura superiore.

E che cos’è questa natura superiore? Attenzione, qui arriviamo al nocciolo: «Questa è la natura divina partecipata, di cui così parla san Pietro [2 Pt 1,4]: “Ci ha donato i beni grandissimi e preziosi che ci erano stati promessi perché diventaste per loro mezzo partecipi della natura divina”. Per aver noi ricevuto questa natura, possiamo dire di essere stati rigenerati come figli di Dio» (ibidem).  Cioè, questa qualità sopraggiunta, che Dio crea nell’anima, nell’uomo e nell’angelo, è nientemeno che una partecipazione della natura divina.

Noi siamo partecipi non di qualche cosa di generico, ma della natura stessa di Dio. Per questo si usa il termine forte di “deiformità”, “deificazione”, cioè diventiamo dei. Ma in che senso? In modo partecipato. È possibile solo per partecipazione, perché essere dei in sé stessi e non per partecipazione è possibile solo a Dio chiaramente. Eppure Dio fa agli uomini questo dono straordinario, di partecipare nientemeno che alla stessa natura divina. È questo il senso della grazia, di questo abito, di questa qualità nuova che sopraggiunge nell’anima e, attenzione, costituisce il sostrato dove si agganciano tutte le virtù infuse, teologali, cardinali, ecc.

E perciò san Tommaso dice: «Come infatti le virtù acquisite predispongono l’uomo a camminare in modo conforme alla luce naturale della ragione; così le virtù infuse lo predispongono a camminare in modo conforme alla luce della grazia» (ibidem), a questa nuova natura creata, a questa partecipazione della natura divina.

Queste sono le virtù. E dunque non c’è coincidenza tra le virtù infuse e la grazia. Il che non vuol dire che ci sia opposizione, ma vanno distinte.

Ed è per questo che san Tommaso – nell’art. 4, l’ultimo sulla questione – ci dice in sostanza che la grazia di Dio non risiede nelle facoltà dell’uomo, cioè non risiede nella sua volontà o nella sua intelligenza, ma risiede nell’essenza dell’anima. Perché nell’essenza dell’anima? Spiega Tommaso: «Come infatti l’uomo partecipa la conoscenza divina mediante la facoltà dell’intelletto, con la virtù della fede, e l’amore divino mediante la facoltà volitiva, con la virtù della carità; così mediante la natura dell’anima partecipa la natura divina, secondo una certa somiglianza con una certa generazione o ricreazione» (I-II, q. 110, a. 4). Cioè è l’anima stessa, l’essenza stessa dell’anima che partecipa di questa natura divina. È inaudito, è qualcosa di straordinario, riusciamo a parlarne, ma difficilmente riusciamo a porre mente a questa realtà.

Ovviamente, la grazia che risiede nell’essenza dell’anima chiama quelle virtù che invece risiedono nelle facoltà dell’anima: la fede nell’intelligenza; la carità nella volontà e poi tutto il corteo delle virtù infuse. Ma quello che a me interessa ribadirvi è che siamo di fronte a una vera e propria deificazione dell’uomo, che è la realizzazione del progetto che Dio aveva sin dal Paradiso terrestre e che il demonio conosceva molto bene e dal quale ha cercato di deviare in qualche modo i nostri progenitori. Come ha fatto? Ricordate la tentazione: “diventerete come Dio”. Il demonio ha preso una parte di verità. La parte di verità è che veramente l’uomo è chiamato a diventare come Dio. Ma cosa ha taciuto? Ha taciuto l’elemento fondamentale: per divenire come Dio non può esserci un’iniziativa umana; noi non possiamo elevare la nostra natura al di sopra di sé stessa. Noi possiamo compiere tante cose che competono alla nostra natura, che sono al livello della nostra natura, ma non che vanno al di là. Infatti, abbiamo visto che questa deificazione può essere opera solo di Colui che ha in proprio la natura divina, Dio stesso, che invece la partecipa alle sue creature, all’uomo o agli angeli.

Dunque, il demonio non ha mentito dicendo: “diventerete come dei”; ha mentito perché ha taciuto che divenire come Dio è un dono di Dio stesso. È un dono che Dio vuole elargire agli uomini, ma che è impensabile raggiungere senza Dio o contro Dio. Il tema è teologicamente forte, ma anche esistenzialmente pregnante.

Riassumiamo un po’ questi quattro articoli della quæstio 110. Prima di tutto, quando parliamo della grazia, ci riferiamo a una qualità creata: creata da Dio stesso, nella nostra anima, che consiste in una partecipazione della natura divina, in una certa assimilazione della natura divina, in una deificazione. È questo il senso dell’adozione a figli. L’adozione a figli di Dio non è un atto giuridico esterno. Non c’è un giudice che decreta che Tizio è figlio adottivo di un altro. Non è questo. Questo corrisponde a concepire la grazia come un atto di mera benevolenza esterna, che non cambia interiormente l’uomo.

Qui c’è tutta la diatriba sulla giustificazione, la diatriba con Lutero. Lutero ha ripudiato questa concezione della grazia come una partecipazione reale alla natura divina che cambia l’uomo stesso, il sopraggiungere di una qualità nuova che risiede nell’essenza dell’anima. Questo è il punto forte. Tecnicamente ci si riferisce all’abito entitativo della grazia santificante. La grazia santificante è un abito stabile che riguarda l’ente, cioè l’essenza stessa dell’animo umano: abito entitativo della grazia santificante. A cui si aggiungono ulteriori doni che vengono da Dio stesso e che richiedono questo abito entitativo della grazia santificante. E che cosa sono? Sono i cosiddetti abiti operativi delle virtù infuse, cioè i principi operativi prossimi.

Abbiamo visto il parallelo con le virtù umane che sono i principi operativi prossimi per agire conformemente alla natura umana. E qui abbiamo i principi operativi prossimi che ci fanno agire conformemente a questa natura divina, partecipata. I due principi non vanno in conflitto, lo abbiamo visto. Abbiamo questa meravigliosa armonia tra la natura umana e la natura umana deificata: la seconda non distrugge la prima, non la elimina, non la rende inutile, anzi la nobilita.

Terzo passaggio, che abbiamo lasciato tra parentesi. Questo abito entitativo e questi abiti operativi richiedono la presenza attiva di Dio, della terza Persona in particolare, cioè lo Spirito Santo. Questa si chiama grazia increata. È importante per capire una discussione mai risoltasi realmente con la teologia della grazia più tipica del mondo francescano. Il mondo francescano insiste molto, giustamente, sulla presenza attiva dello Spirito Santo nell’uomo. Ma san Tommaso, attenzione, dice: la grazia increata non è che la buttiamo fuori e che non c’è più questa inabitazione; ma è in ragione di questa inabitazione che  abbiamo la grazia creata, l’abito entitativo. Perché è così importante sottolineare questo aspetto? Perché questo permette di dire che all’interno dell’anima umana è avvenuto un reale cambiamento qualitativo, che ha a che fare con l’essenza dell’anima. C’è una vera e propria deificazione dell’uomo. Non c’è “solo” un’inabitazione dello Spirito Santo.

Questa inabitazione, la grazia increata, avvia, crea una nuova creazione, che è data appunto dalla grazia santificante, da questo abito entitativo, e poi dagli abiti operativi, le virtù infuse. È veramente come se fosse una nuova creazione, non giustapposta a quella naturale e ancor meno contrapposta, ma profondamente legata ad essa. Eppure è una nuova creazione perché è una vera e propria deificazione dell’uomo. Non è “solo” un’inabitazione di Dio nell’anima, ma è un’elevazione, un cambiamento, una vera e propria deificazione dell’anima stessa.

Abbiamo messo tanta carne al fuoco. Mi pare giusto, nonostante alcune difficoltà tecniche, comunicare questi punti importantissimi della teologia cattolica, perché ci diventino un po’ più familiari, perché qui si apre un mondo, c’è tutta la nostra vocazione, la chiamata straordinaria del cristiano. Che non è semplicemente quella di essere più buono a Natale, o di fare un’elemosina più generosa rispetto a un altro. Cioè, non è una condotta morale migliore; il che non significa che non ci debba essere, che non ci si debba sforzare anche in questo. Non è neanche semplicemente la conoscenza di qualche cosa in più rispetto agli altri. È proprio una trasformazione. Quando parleremo del grande mistero di Cristo e della Redenzione, vedremo che è quella di essere partecipi della natura divina mediante il Figlio, cioè divenire figli di Dio nel Figlio, Gesù Cristo.



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