Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
IL VESCOVO

Legge sul biotestamento, è giusto fare resistenza

La Chiesa italiana ha perso una battaglia che non ha neanche combattuto, rendendosi complice di uno statalismo che soffoca la persona. La comunità ecclesiale, e non solo questa, deve rendersi conto di quanto è successo e attrezzarsi per una resistenza in modo che la legge sia attuata il meno possibile.
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Vita e bioetica 16_12_2017
Emma Bonino e Marco Cappato

Di fronte all’approvazione definitiva della legge sul testamento biologico, la prima osservazione, amara, è che la Chiesa italiana ha perso una battaglia che peraltro non ha neanche combattuto. Più in generale non si può evitare un confronto con quanto accadde solo pochi anni fa quando Eluana Englaro è stata uccisa dallo Stato con una operazione infame: allora la realtà popolare cattolica aveva accompagnato questo martirio con una presenza viva e attiva, cercando di impedirlo. Oggi prevale una sostanziale indifferenza non solo da parte dell’istituzione ecclesiastica, c’è stato un silenzio anche per gran parte della realtà popolare cattolica. Non solo: nella frammentazione pubblica, politica, abbiamo cattolici che esultano per quel che considerano un importante passo verso la democrazia occidentale, e altri giustamente preoccupati.

Io che sono intervenuto più volte sulla vicenda aggiungerei queste preoccupate osservazioni:

La prima osservazione è che con questa legge si consente che lo Stato, istituzione capitale di una società, si occupi di problemi e di dimensioni che sono esclusivamente personali, cioè che coinvolgono la persona e quantomeno il contesto parentale nella quale la persona è nata e svolge passi fondamentali della sua esperienza umana. Nel momento decisivo, laddove si devono prendere decisioni gravi di fronte a dolori permanenti, di fronte alla eventualità reale che siano gli ultimi tempi prima del passaggio definitivo, lì il nostro Stato ritiene di essere - insieme a un gruppo di esperti - il soggetto abilitato su queste decisioni che attengono alla sacralità della persona e al contesto parentale in cui la persona è cresciuta e vissuta.
È una singolare riduzione della persona a soggetto di una comunità statale che si rapporta a lui come un suddito. E la realtà parentale scompare del tutto e viene sostituito da una trama di rapporti istituzionali che decidono circa l’esito della vita di una persona. Persona che, si badi bene, non è nata dallo stato e non è suddito dello stato, ma è nata in un contesto parentale, essenziale per la sua nascita ed essenziale per il suo sviluppo.
Siamo di fronte a uno statalismo contro il quale la sana Dottrina sociale della Chiesa - che evoco a quei pochi che ancora ne conoscono i contenuti - ha sempre lottato. Lo Stato non ha ogni diritto, lo Stato deve porre e incrementare le condizioni per la libertà della persona e dei gruppi nella realtà sociale. Se fa altro invece di questo, compie dei gesti che sono totalitari.

Seconda osservazione, legata alla prima: una volta che lo Stato inizia ad allargare le sue competenze sugli spazi della vita personale e sociale, l’appetito vien mangiando. Noi abbiamo già conosciuto nella storia recente la pretesa dello Stato di intervenire nelle sfere significativamente private o personali. Basti pensare a come – non in Italia ma altrove – lo Stato è intervenuto sui matrimoni, magari scoraggiando o impedendo il matrimonio fra etnie diverse, tentando di normare la vita delle cosiddette minoranze in modo arbitrariamente riduttivo. Anche Stati che si gloriavano di essere democratici hanno trattato minoranze etniche e linguistiche come cittadini di seconda categoria. Quando lo Stato investe un punto che non gli compete invadendo la sfera della libertà personale e privata, tutta la società è sottoposta alla reale possibilità che lo Stato non si fermi e che in poco o tanto tempo (mi auguro che sia tantissimo) molte altre dimensioni della vita personale e sociale vengano attribuite meccanicamente alla responsabilità dello Stato.

Da ultimo mi sembra giusto rilevare che la minoranza cattolica che, in questa frammentazione sociale e politica dei cattolici, ha ancora il senso della propria identità ecclesiale, della propria dignità di figli di Dio e della propria responsabilità missionaria, capisce che quello del fine vita è un tema su cui investire energie culturali e pastorali. Tutta la comunità ecclesiale, e non solo quella ecclesiale, si deve rendere conto di ciò che è accaduto e deve attrezzarsi a una resistenza legittima in modo che questa legge, dato che c’è, sia attuata il meno possibile.
Una comunità ecclesiale come quella italiana che ha già dimostrato una maturità enorme nell’ambito della cura e della preoccupazione per la realtà e nell’educazione della sua libertà, deve semplicemente aggiungere alla sua agenda altri ambiti in cui esercitare la stessa vigilanza e capacità di resistenza.

* Arcivescovo emerito di Ferrara-Comacchio