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PLANNED PARENTHOOD

Leana Wen, presidente nuova… ideologia vecchia

Dallo scorso 12 novembre la Planned Parenthood è guidata ufficialmente da Leana Wen, una dottoressa di origini cinesi, che in un tweet ha definito l’espansione dell’aborto «la nostra missione principale». Nulla che già non si sapesse, anche se l’affermazione è un autogol per la propaganda portata avanti per anni dalla multinazionale abortista.

Vita e bioetica 15_01_2019

Una serie di tweet pubblicati l’8 gennaio, nel giro di pochi minuti, per respingere vigorosamente l’impressione che lei potesse essere meno “impegnata” sul fronte dell’aborto rispetto a Cecile Richards, la donna che l’ha preceduta alla presidenza della Planned Parenthood (2006-2018), il colosso abortista che secondo l’ultimo rapporto, quello del 2016/2017, ha fatturato solo negli Stati Uniti quasi 1.46 miliardi di dollari (un record), di cui una larga parte provenienti dalla fornitura di contraccettivi e dall’uccisione dei nascituri. Parliamo di Leana Wen, che compirà 36 anni il 27 gennaio, la prima donna medico a guidare la Planned Parenthood nonché la prima immigrata. La Wen ha infatti chiare origini cinese, è nativa di Shangai, e si è trasferita con i suoi genitori negli Usa quando aveva circa sette anni.

A sollecitare i tweet della Wen è stato il titolo di un articolo di Buzz Feed News, che il giorno prima aveva pubblicato un’intervista con la donna sino-americana e titolato: «Il nuovo presidente di Planned Parenthood vuole concentrarsi sull’assistenza sanitaria non abortiva». A parte il fatto che in un mondo normale dovrebbe essere un paradosso includere l’aborto nell’«assistenza sanitaria», il titolo non è andato giù alla Wen, che si è affrettata a esprimere il suo fastidio su Twitter scrivendo: «Sono sempre felice di fare interviste, ma questi titoli fraintendono completamente la mia visione per la Planned Parenthood».

Quale sia la sua “visione” lo ha precisato subito dopo con un altro tweet: «Primo, la nostra missione principale consiste nel fornire, proteggere ed espandere l’accesso all’aborto e alla cura della salute riproduttiva. Non ci tireremo mai indietro da questa lotta: è un diritto umano fondamentale e sono in gioco le vite delle donne», ha scritto la Wen ricorrendo alla solita retorica femminista, che nelle vite delle donne da proteggere non include mai quelle delle bambine abortite. Ma c’è un’altra contraddizione in cui è caduta la neo presidente, ufficialmente in carica dal 12 novembre 2018: per anni la Planned Parenthood e i suoi sostenitori politici hanno affermato che i «servizi di aborto» contano solo per il 3% dei suoi servizi medici, e questa percentuale si trova anche nell’ultimo rapporto annuale.

Il dato del 3%, spiega Life Site News, «deriva dal contare come separati servizi che sono normalmente raggruppati insieme, come dare alle stesse donne contraccettivi, un test di gravidanza e un aborto». Perciò, continua il giornale pro life, «gli aborti costituiscono oltre il 90% dei servizi di Planned Parenthood legati alla gravidanza», come a dire che la missione di questa industria, il cui nome sinistro significa per l’appunto «genitorialità pianificata», è la lotta alla maternità. Del resto, perfino il liberal New York Times ha pubblicato un articolo a dicembre per rendere conto delle diverse discriminazioni denunciate da dipendenti ed ex dipendenti della Planned Parenthood mentre portavano avanti la loro gravidanza, una questione che rappresenta l’ennesimo autogol per una multinazionale che dice di stare dalla parte delle donne. A minarne ancora di più la credibilità è il fatto che gli aborti annuali della PP sono aumentati di quasi l’11% nel periodo 2006-2016, mentre negli stessi anni le cure prenatali sono diminuite del 30%, i controlli per il tumore al seno sono scesi del 62% (intanto è venuta alla luce la forte correlazione tra questo tipo di tumori e l’aborto) e i pap test hanno segnato addirittura un -72%.

Tutti i dati convergono nel dire che l’impedimento delle nascite e la soppressione dei bambini nel grembo (a cui è legato pure lo scandalo della vendita di organi e tessuti fetali), sono il più grande business della Planned Parenthood. Lo si sapeva già, ma la Wen con il suo tweet ha come messo fuori gioco uno dei maggiori (falsi) argomenti dell’azienda per cui lavora: da un lato, per evitare di perdere il consenso di chi ancora crede che la Planned Parenthood sia al servizio della salute, si sostiene che l’aborto conti solo per il 3% dei servizi medici complessivi; dall’altro la sua presidente definisce l’aborto «la nostra missione principale». Contraddittorietà del male, che rivela il suo vero volto se pensiamo al significato di quel «3%»: stando sempre al rapporto della PP equivale a 321.384 vite spezzate di bambini, più di un terzo di tutti gli aborti ufficiali negli Stati Uniti.

C’è poi da considerare che il mettere a capo del gigante abortista la Wen, dopo anni di gestione di una donna iper attiva politicamente come la Richards, è stata una strategia precisa per rifare il look alla PP e condizionare ancora di più la mentalità comune, cioè il modo di guardare all’aborto. Ne è convinto il pro vita Tom McClusky, tra i leader della March for Life, che ha definito a malincuore «geniale» la scelta di assumere alla guida della PP proprio una dottoressa, perché «assumere qualcuno con un Dr. di fronte al suo nome» contribuirà a influenzare ancora di più l’opinione pubblica facendo credere che la soppressione dei bambini nel grembo materno sia health care, cioè «assistenza sanitaria». In effetti i messaggi abortisti sono sempre più centrati su questo e del resto i propagatori della cultura della morte usano da decenni l’espressione «salute sessuale riproduttiva» come sinonimo di aborto. Allo stesso tempo la PP non ha certo intenzione di accantonare l’attivismo politico, visto che i suoi affari fioriscono grazie alla collusione con la politica e soprattutto con gli esponenti democratici.

Sono oltre 543, secondo l’ultimo rapporto, i milioni di dollari che la PP ha ricevuto in finanziamenti federali, ma nel fronte repubblicano non mancano le iniziative di chi cerca di eliminare o quantomeno ridurre questa mole enorme di fondi pubblici. Solo nell’ultima settimana tre parlamentari, tutte donne, hanno presentato al Congresso dei progetti di legge in tal senso. Si tratta di Vicky Hartzler, che il 9 gennaio ha depositato alla Camera una proposta volta a revocare i finanziamenti ottenuti dalla PP attraverso il Medicaid (un programma federale sanitario rivolto alle persone con basso reddito). Il giorno prima la collega Virginia Foxx presentava, sempre alla Camera, un disegno di legge per modificare il Titolo X del Public health service Act, con il fine di impedire che i fondi destinati alla pianificazione familiare vadano a organizzazioni che praticano aborti. Nello stesso senso è orientata la proposta di legge introdotta al Senato da Marsha Blackburn, anch’essa intesa a emendare il Titolo X.

I tentativi di togliere i finanziamenti federali alla Planned Parenthood (che a causa della decisione di Trump di reintrodurre la Mexico City Policy, la quale vieta di dare fondi ai gruppi che procurano e promuovono l’aborto all’estero come metodo di pianificazione familiare, ha perso circa 100 milioni di dollari per portare avanti le sue attività nel mondo) sono parte di una storia infinita e non sarà facile trasformarli in realtà (i democratici godono oggi di una netta maggioranza alla Camera), ma almeno queste tre donne stanno tenendo alta l’attenzione su un tema - quello dei soldi pubblici a chi uccide le generazioni di domani - che è necessario affrontare.