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Ora di dottrina / 114 – La trascrizione

Le virtù cardinali: la temperanza – Il testo del video

Le virtù cardinali (prudenza, giustizia, fortezza, temperanza) si chiamano così perché fanno da cardine della vita morale. La temperanza riguarda la moderazione del concupiscibile: nutrizione e sessualità. La temperanza e l’apertura al Bene.

Catechismo 05_05_2024

Proseguiamo la nostra riflessione sulle virtù, a cui stiamo dedicando una serie di incontri. In quale senso e contesto? È il contesto in cui stiamo descrivendo chi è l’uomo e come l’uomo ritorna a quel Dio che lo ha creato. Ricordate quello “schema” fondamentale dell’exitus e del reditus, cioè la creazione che esce da Dio e il ritorno della creazione – nel nostro caso, dell’uomo – a Dio.

E l’uomo torna a Dio secondo quella natura che ha ricevuto, una natura razionale, come creatura dotata appunto di una ragione, di un’intelligenza e di una volontà. In questo reditus, come abbiamo detto, entra l’uomo per eccellenza, cioè l’uomo-Dio, Gesù Cristo, non solo come modello, ma precisamente come Colui che ha ricostituito il ponte per ritornare; e Colui che dall’interno, in qualche modo, divinizza l’uomo, gli dona la grazia per questo ritorno a Dio, nella sua santificazione e poi chiaramente nel passaggio ultimo da questa vita all’eternità.

All’interno del discorso sulle virtù, la scorsa volta abbiamo accennato alle virtù infuse. Abbiamo parlato anche della necessità delle virtù, la connessione tra le virtù e la carità. Oggi iniziamo a vedere le cosiddette virtù cardinali, le quattro virtù cardinali classiche: la prudenza, la giustizia, la fortezza e la temperanza. Queste quattro virtù, importantissime, si chiamano così proprio perché fanno da cardine della vita morale.

Dividiamo grossolanamente queste virtù in due gruppi: le prime due, la prudenza e la giustizia, attengono maggiormente alla parte razionale dell’uomo; le altre due, la fortezza e la temperanza, riguardano soprattutto la sfera dell’appetito sensibile. Oggi ci soffermeremo in particolare sulla temperanza.

Quando abbiamo parlato delle passioni, abbiamo già visto che nell’uomo l’appetito sensibile – questa dimensione che potremmo dire non razionale, pur tenendo presente che nell’uomo non esiste una sfera al di fuori della ragione, semmai può essere una sfera disordinata, ma nell’uomo, essendo uno, non c’è una dimensione puramente sensibile come per esempio nel caso dell’animale – ha due movimenti fondamentali: il concupiscibile e l’irascibile.

Da che cosa è caratterizzato il concupiscibile? Dal muoversi verso un bene sensibile particolare; oppure, dall’altro lato della medaglia, dal fuggire un male sensibile. Dunque, il concupiscibile gioca la sua dinamica nel muoversi verso o fuggire da un bene o un male sensibile particolare.

Anche l’irascibile ha a che fare con il bene e con il male sensibile, ma con il bene e il male che si presentano come qualche cosa di arduo e dunque, potremmo dire, come la difficoltà che si frammezza in qualche modo nel raggiungere un bene o fuggire un male.

Le due virtù corrispondenti alla moderazione del concupiscibile e alla moderazione dell’irascibile sono rispettivamente la temperanza e la fortezza. Già comprendiamo perché queste due sono virtù cardinali, perché sono il cardine su cui poggiano tutte le virtù che riguardano la moderazione del concupiscibile e la moderazione dell’irascibile.

Affinché questi beni e questi mali rientrino nel bene della persona, nel bene umano, sono infatti necessarie delle virtù, perché io potrei avere l’attrazione verso un bene e la fuga da un male, che potrebbero non corrispondere al mio bene, come persona. Esempio banalissimo. Io posso essere fortemente attratto da un vassoio di pasticcini, però magari sono insulino-resistente e quindi quell’attrazione a un bene particolare per me può essere fatale, come persona. Ma c’è di più.

Quando parliamo di persona non parliamo solamente della salute di una persona. Per cui, per esempio, io posso essere attratta da questo vassoio di pasticcini, per cui mi fermo nella pasticceria e non tengo conto che a casa avevo una persona che aveva necessità di me, che aveva bisogno di un favore, di un aiuto urgente. Quindi, quest’attrazione verso un bene particolare mi distoglie da un bene più grande che avrei dovuto compiere.

Oggi vediamo, in questo quadro, la temperanza, cioè quella virtù che appartiene alla moderazione dell’appetito sensibile, in particolare del concupiscibile.

Ora, che cosa fa la temperanza? Un po’ lo dice la parola: mantiene nella giusta misura, tempera. Quale misura? Non semplicemente una misura di salute, sebbene  questa entri in qualche modo anche nella giusta misura, ma la misura umana e cristiana. Qui ritorna quel discorso che abbiamo fatto l’altra volta sulle virtù infuse: c’è un ordine propriamente cristiano. E dunque la temperanza – in quanto virtù infusa che richiama (non torno su questo discorso) la virtù acquisita della temperanza che riguarda l’ordine di ragione, cioè il bene proprio della persona umana – ha di mira, come virtù infusa, un bene ancora più elevato, che non è contrapposto e che è quello della persona cristiana, ovvero rispondere ai criteri della vita cristiana e non solamente a quelli della vita umana. Ripeto nuovamente: questo non genera un conflitto tra le due parti, ma c’è un ordine, una gerarchia, un modellamento di ciò che è cristiano, di ciò che è umano.

Dunque, la temperanza mantiene nella giusta misura umana e cristiana l’appetito sensibile, nella sua tendenza al bene sensibile e nel suo fuggire il male sensibile. Perché questo essere attratti da un bene sensibile o fuggire da un male sensibile potrebbero distogliermi proprio da questa giusta misura, cioè da questo bene della mia persona, in quanto uomo e in quanto cristiano. Per esempio è chiarissimo che un eccesso verso quella passione che chiamiamo gola, l’essere assorbito eccessivamente dai piaceri della gola, una mancanza di misura può distogliere non solo dalla vita umana ma anche dalla vita dello spirito, la vita della preghiera, la ricerca dell’unione con Dio.

Sempre nell’Ora di dottrina sulle passioni, la n. 107, abbiamo visto i sei movimenti fondamentali – le tre coppie di movimenti fondamentali – del concupiscibile. Ve li riporto velocemente. Quali sono questi sei movimenti? Quello fondamentale: amore e odio. E due coppie che sono, per così dire, due articolazioni di questo movimento fondamentale, amore-odio: cioè desiderio e fuga; piacere/gioia e tristezza. Desiderio e fuga mi parlano del bene o del male assenti: quando il bene è assente, arriva il desiderio; quando invece il male è assente, ma è percepito appunto come veniente, imminente, abbiamo la fuga, ossia il sottrarsi da un male che non c’è ancora ma che sta per venire. Dall’altra parte, invece, che cosa mi dicono piacere e tristezza? Mi dicono la reazione nel concupiscibile al bene e al male presenti. Il bene presente dà piacere, godimento; il male presente dà tristezza. Questi sono i movimenti fondamentali. Dunque, la temperanza entra a modularli, a moderarli perché siano all’interno del bene della persona.

Punto importantissimo. Il problema non è il piacere e non è il desiderio, come non lo è – rispetto al male – la fuga e la tristezza. Queste sono passioni che esistono, che ci sono. Il punto non è lì: non è che, se si prova piacere o si ha il desiderio, ergo c’è una valutazione morale negativa. Il problema è la qualità dell’azione che accompagna quel piacere; e, dall’altra parte, la qualità dell’azione verso cui è mosso il desiderio. In sostanza, ciò che piace, il movimento verso ciò che piace non deve essere contrario all’ordine di ragione. Ad esempio, l’atto di avvertire il piacere dell’unione sessuale non è in sé stesso un problema, ma bisogna vedere se l’azione, che quel piacere accompagna, è secondo questo ordine o no. Per cui, se proviene dal rapporto con il proprio coniuge, è un piacere che accompagna un bene e un’azione morale buona; se invece è, supponiamo, con il coniuge di un altro, c’è lo stesso risultato di piacere, ma l’azione che mi porta a quel piacere è qualitativamente, dal punto di vista morale, cattiva, malvagia.

Lo stesso discorso vale per il desiderio. Il piacere è l’oggetto di un desiderio. Il desiderio mi indica un movimento, la tendenza; il piacere mi indica invece il raggiungimento, l’appagamento, una certa quiete per il bene raggiunto. Anche qui la moralità del desiderio dipende dalla qualità dell’azione.

Di quali desideri e di quali piaceri, in particolare, parliamo? È la sfera del concupiscibile, come detto. Ma san Tommaso fa una precisazione importante, che oggi viene poco colta, ma che invece è importantissima. Cioè, san Tommaso dice che la temperanza entra nella moderazione di quei piaceri più veementi, più forti, che, proprio per la loro veemenza, sono in grado di travolgere la ragione, di portare l’uomo fuori da questo ordine di ragione umana e illuminata dalla fede. E quali sono questi piaceri? Sono quelli suscitati dal tatto. Il tatto è un senso originario, a cui gli altri sensi sono in qualche modo subordinati, verso cui sono orientati. Il piacere del tatto è tra l’altro quello che il bambino sperimenta immediatamente, quando viene subito preso e avvolto, quindi sperimenta subito il tatto, a conferma di un elemento fondamentale anche proprio della relazione con il mondo e con l’altra persona. Sono i piaceri legati al tatto quelli più forti.

E due sono questi piaceri legati al tatto: la nutrizione e la generazione. La nutrizione viene moderata da quelle parti della temperanza che vanno sotto il nome di astinenza e sobrietà. L’astinenza riguarda, diciamo, la misura del cibo. La sobrietà riguarda soprattutto la moderazione dell’ebbrezza. E dall’altra parte, a moderare quei piaceri che nascono dalla generazione c’è la castità.

Dunque, la temperanza, in queste sue due strutture fondamentali – l’astinenza da una parte, la castità dall’altra, con tutto quello che poi gira attorno a queste virtù –, è chiamata a rendere queste azioni propriamente umane, e propriamente cristiane con la temperanza come virtù infusa.

Quando parliamo di misura, cioè della temperanza come virtù che concerne questa misura, non intendiamo dei parametri astratti: intendiamo invece l’inserimento della nutrizione e della generazione, in generale l’inserimento delle passioni legate alla sfera del concupiscibile, all’interno di quelle finalità che sono proprie dell’uomo, in quanto uomo, in quanto persona, e dunque secondo l’ordine di ragione della persona, e del cristiano, in quanto rinato in Cristo, in quanto chiamato alla misura di Cristo. È questa la misura che la temperanza porta nella sfera del concupiscibile. Non è quindi una misura precettistica, il che non significa evidentemente che non ci siano dei precetti che illuminano. Ma i precetti non sono fine a sé stessi, non vengono adempiuti solo per obbedienza, ma in virtù del fatto che essi indicano questa misura dell’uomo e del cristiano.

Se è chiaro questo, che cos’è l’intemperanza? L’intemperanza è l’andare fuori misura, cioè il fatto che il mio appetito sensibile si impone e mi fa mancare quelle finalità proprie dell’uomo e del cristiano: è lui – questo appetito – che mi “porta a spasso”; e non è più, invece, la ragione dell’uomo illuminata dalla fede, che integra la sfera dell’appetito sensibile.

Dunque, possiamo comprendere che la gravità dell’intemperanza, dei vari atti di intemperanza in generale – che siano quelli relativi alla nutrizione, quindi la gola, o quelli relativi alla generazione, quindi la lussuria – la gravità di questi atti dipende da ed è commisurata a quelle finalità che risultano compromesse dall’amore sregolato al piacere. Cioè, quanto più alta e importante è questa finalità che viene compromessa (dal fatto che la tendenza è fuori dall’ordine, è sregolata), tanto più ovviamente sarà grave l’atto di intemperanza. Qui comprendiamo come mai i peccati de Sexto, cioè in sostanza i disordini legati alla sfera della sessualità, le intemperanze legate a questa sfera sono sempre gravi, perché sempre in questa sfera sono richiamate finalità altissime, quali la generazione, la relazione con il prossimo.

Due sottolineature prima di chiudere. Ripeto, non si tratta di un trattato sulla temperanza, quindi non andremo a vedere tutta l’articolazione che san Tommaso fa nella Summa. Stiamo facendo un corso di dottrina e stiamo vedendo le modalità con cui l’uomo ritorna a Dio. Quindi non andrò nello specifico, però due considerazioni mi sembrano importanti prima di chiudere questa parte e poter continuare poi nelle prossime ore di dottrina con le altre virtù cardinali.

La prima considerazione è questa: la temperanza rende possibile, per così dire, l’unificazione della molteplicità di piaceri e desideri che l’uomo incontra, dei quali l’uomo vive. Senza questa unificazione l’uomo si disperde, si disgrega in questi piaceri e in questi desideri. Perché questa affermazione è vera e perché è importante?  Perché non esiste nessun bene sensibile che sia in grado di colmare quell’“apertura” infinita, verso l’infinito, che l’intelligenza e la volontà dell’uomo hanno. Cioè, l’intelligenza cerca il Vero, con la V maiuscola; la volontà cerca il Bene, con la B maiuscola. Dunque, nessun bene sensibile sarà in grado di appagare questa apertura dell’uomo.

L’uomo che va dietro al bene sensibile, cioè che non unifica il bene sensibile dentro qualcosa di più alto, di più umano, di più cristiano, l’uomo che non fa questo, va dietro a ogni bene sensibile particolare, lo afferra e rimane poi, in qualche modo, vuoto. E così si illude che nella moltiplicazione dei beni particolari possa raggiungere questa apertura. Il che è un’illusione totale, perché non è un’apertura infinita quanto alla quantità, per cui quanti più piaceri particolari sommo, tanto più giungerò all’infinito: questo è l’infinito matematico, non è l’infinito qualitativo. L’uomo non è fatto per il primo.

Nessuno dei beni sensibili è in grado di riempire questa apertura al Bene e al Vero dell’uomo. E dunque che cosa abbiamo? Abbiamo quello che verifichiamo tutti i giorni e che poi si traduce anche a livello clinico, letteralmente. Questa ne è la spiegazione antropologica, metafisica. E cioè che la gola, da una parte, e la lussuria, dall’altra, disperdono l’uomo, lo rendono incapace di cogliere il senso totale della vita. E dunque l’uomo resta disgregato, anche con tutte le patologie che discendono da questa disgregazione, da questa mancanza di un senso unitario, di un senso di totalità. E quanto più l’uomo si disperde nella gola e nella lussuria – in particolare nella lussuria, a motivo della maggior veemenza della sfera della sessualità – l’uomo, a furia di vivere in modo sregolato, finisce per non percepire più questa apertura al senso totale della vita. Dunque, l’uomo si acceca letteralmente e rimane intrappolato in questi piaceri veementi, in questi desideri veementi, che ogni volta lo attraggono sempre di più, ma ogni volta lo rendono anche sempre più schiavo e non lo lasciano più libero. L’uomo viene proprio accecato, al punto che non riesce più, umanamente parlando, ad alzare lo sguardo verso qualcosa di più umano. Quindi, la stessa sessualità viene vissuta in modo non umano.

Secondo rilievo. C’è una differenza tra l’astinenza, legata alla nutrizione, e la castità, legata alla generazione. Entrambe chiaramente hanno a che fare con il concupiscibile, entrambe hanno a che fare con il tatto, ma la prima ha come punto di riferimento principale il soggetto e, in seconda battuta, una dimensione sociale. Cioè, l’uomo si nutre per continuare a vivere e a vivere bene. La prima finalità dell’alimentazione è orientata verso il soggetto stesso, che si ciba di qualcosa. Chiaramente, essendo comunque l’alimentazione un atto umano e avendo l’uomo una natura socievole, sociale, aperta al prossimo, anche l’atto del mangiare entra in questa dimensione. E da qui il senso della convivialità, il mangiare insieme, il banchetto, il pranzo come segno di accoglienza, di volontà di condividere la vita, eccetera. Questo è indubbio. Ma questo è il secondo aspetto, perché in prima battuta la nutrizione punta chiaramente verso la persona.

Invece, la sessualità, proprio, perché richiede alterità, un’altra persona, che sia simile a me ma complementare a me – perciò la sessualità è sempre rivolta dall’uomo verso la donna, dalla donna verso l’uomo –, proprio per questa ragione la sessualità implica un’alterità e dunque ha come primo movimento l’uscita da sé, verso l’altro. E come riflesso ritorna chiaramente su sé stessi. Dunque, abbiamo due movimenti, per così dire, opposti. E questo fa comprendere come nella sessualità, perché si realizzi questa misura di cui abbiamo parlato prima, l’altra persona è fondamentale. Cioè, l’atto sessuale deve comprendere la misura delle due persone in quanto persone coinvolte nella relazione sessuale. Ogni modalità di vivere la sessualità come sfruttamento dell’altro – che l’altro sia vittima o complice non cambia assolutamente niente sotto questo punto di vista –, cioè considerare l’altro come strumento di piacere, in tutte le modalità in cui questo può essere vissuto, è chiaramente qualche cosa che è fuori dalla misura propria della temperanza, in questo caso della castità. Quindi, l’altro è sempre parte di questa misura che la temperanza, cioè qui la castità, cerca nell’aspetto del piacere sensibile.

La prossima volta vedremo l’altra grande virtù cardinale legata all’appetito sensibile, cioè la fortezza. Vedremo appunto come si inserisce in questa dinamica di integrazione degli appetiti sensibili, non di esclusione, di mortificazione, ma di inclusione, perché appunto siano all’interno del bene più grande, che è il bene della persona in quanto umana e in quanto cristiana.



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