Le virtù necessarie – Il testo del video
Le virtù non sono un dato di natura per l’uomo, ma un’acquisizione. Senza di esse l’uomo non può perfezionare la propria natura. Spieghiamo perché il senso moderno della libertà cozza con le virtù. Il ruolo della carità.
Proseguiamo le nostre Ore di dottrina sul tema delle virtù. La volta scorsa abbiamo fatto un’introduzione molto ampia, che voleva essere anche un po’ una sintesi dei numerosissimi incontri che abbiamo fatto fino adesso. Per non perdersi nei dettagli e per non perdere la visione dell’insieme, abbiamo visto la grande idea fondamentale dell’exitus – cioè di un’uscita da Dio della creazione – e di un ritorno a Dio (reditus) come fine della creazione e in particolare dell’uomo. E abbiamo visto la centralità di Cristo sia nel movimento d’uscita sia nel movimento d’entrata: ne abbiamo solo accennato, perché poi avremo tantissimi incontri proprio sulla persona di nostro Signore Gesù Cristo, la sua divino-umanità, il senso dei misteri della sua vita, eccetera. Ne abbiamo accennato per avere un po’ il quadro dell’insieme.
Oggi entriamo un po’ più profondamente nella questione delle virtù. A me preme moltissimo, come vedete dal titolo, ribadire che le virtù nell’uomo sono necessarie. E in questa lezione cercherò di spiegare perché.
Facciamo un passo indietro a quando abbiamo parlato degli angeli. Se ricordate, abbiamo dedicato diversi incontri agli angeli. E abbiamo fatto un parallelo tra la natura angelica e la natura umana, per spiegare la conoscenza, la volontà negli angeli, che abbiamo sempre messo in rapporto con quella umana – di cui abbiamo esperienza –, per dire che la volontà degli angeli non è esattamente come quella umana. In questi incontri avevamo detto che una delle differenze fondamentali tra l’angelo e l’uomo sta nel fatto che l’angelo è creato nella sua perfezione naturale. Detto in altri termini: l’angelo non progredisce verso un perfezionamento della propria natura; lo “scatto” che l’angelo è stato chiamato a compiere è stato il passaggio all’ordine soprannaturale, l’ordine superiore alla sua stessa natura angelica, ossia a sua volta la vita della grazia e dunque la beatitudine eterna. Ecco, sotto questo punto di vista, l’angelo e l’uomo sono “uguali”, cioè entrambi sono stati chiamati a una beatitudine, alla comunione con Dio, che oltrepassa la loro natura.
Ma se stiamo sul versante della loro natura, noi troviamo una differenza enorme tra l’angelo e l’uomo. L’angelo è creato nella perfezione della sua natura; l’uomo ha una natura propria tale che è chiamata al suo perfezionamento. Cioè, l’angelo ha una natura perfetta, che quindi non si deve perfezionare, chiamata alla vita soprannaturale, alla visione beatifica. Anche l’uomo è chiamato alla “sopra-natura”, ma è chiamato anche a un’altra cosa, diciamo ancora sul versante naturale. Cerco di semplificare molto, poi la realtà è un po’ più complessa. Cioè, l’uomo non è creato nella sua perfezione naturale. L’uomo ha una natura umana: questa sua natura è la sua dignità, indica il fatto appunto di essere uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio. Ma – attenzione – non è una perfezione naturale quella che egli ha. Ha delle capacità, delle potenzialità che devono essere poste in atto. E quindi la natura dell’uomo è tale da essere chiamato egli stesso a raggiungere la propria perfezione: c’è quindi un cammino di perfezionamento dell’uomo.
Detto in altri modi, possiamo dire che chiunque nasce come essere della specie umana ha chiaramente la natura umana, è persona umana. L’uomo, però, non è pienamente sé stesso se non mediante l’“acquisto” di una certa perfezione, cioè se non mediante quegli abiti buoni che chiamiamo virtù.
Detto in un altro modo ancora, così chiariamo definitivamente: la virtù non è un dato di natura per l’uomo, ma è un’acquisizione. Ora, capite che, in questo senso, le virtù sono necessarie per gli uomini, perché senza le virtù l’uomo non perfeziona la propria natura, il che vuol dire che non adempie ciò che per natura è chiamato ad adempiere, ossia porre in atto degli atti buoni. Cosa vuol dire habitus? Vuol dire, non una volta ogni tanto, ma in modo abituale – da qui habitus – compiere degli atti buoni. Attraverso questi atti buoni, egli perfeziona sé stesso.
Ora, notate come la virtù è il senso della libertà. La libertà, nel pensiero moderno, è concepita diversamente dalla virtù. In che senso? Nel senso che, secondo il pensiero moderno, la libertà è buona in sé stessa, e dunque in qualsiasi modo la libertà si coniughi, in qualsiasi modo la libertà si compia – ossia, qualsiasi scelta libera uno faccia –, purché sia libera, va bene. Invece, in una visione della morale delle virtù, nella visione di san Tommaso e non solo, il punto non è la libertà (il che non vuol dire evidentemente che non conti); il punto è la virtù. Dunque, la libertà che si piega al male e che diventa vizio, è esattamente la corruzione della libertà, perché, anziché essere portata al perfezionamento dell’uomo, porta al suo deterioramento.
Come già accennavo l’altra volta, c’è un contrasto, sotto questo aspetto, tra la morale della virtù e la morale della libertà. Cioè, la morale della virtù la vediamo nella definizione della virtù. Che cos’è la virtù? Classicamente, c’è una definizione che troviamo nell’Etica Nicomachea di Aristotele e che san Tommaso fa sua: «la virtù è ciò che rende buono chi la possiede e buona la sua opera». Dunque, la virtù ha un doppio movimento. Primo e fondamentale movimento: ridonda sul soggetto stesso, rendendolo buono, perché lo perfeziona nella propria natura. E ridonda sull’opera compiuta: l’opera dell’uomo virtuoso è un’opera buona, perché tende a un fine buono, perché adotta mezzi buoni, perché le circostanze sono buone, eccetera. Vedete dunque che la morale della virtù non può prescindere dal bene, è impensabile.
Invece, il concetto moderno di libertà lascia la libertà in qualche modo vuota nel suo contenuto, prescinde dunque dalla bontà o meno dell’atto.
Qual è l’atto “buono” nella concezione moderna della libertà? È l’atto libero: libertà = ciò che non subisce coazione. Ciò che non subisce coazione va bene, è già “buono”. Vedete che siamo su due mondi contrapposti, da questo punto di vista.
La libertà, nella morale della virtù, è precisamente libertà nel bene, nel compimento, nel perfezionamento della propria natura umana. Nella concezione moderna invece è indifferente; o meglio: l’adempimento di questa natura è il fatto stesso di porre in atto degli atti non costretti.
Quindi, le virtù, si capisce, sono strutturali alla natura dell’uomo. Cioè, fanno parte della sua natura, chiamata a perfezionarsi, chiamata a compiersi, chiamata a divenire sempre più buona, potremmo dire, e a spandere questa bontà di sé stessi nelle proprie azioni, nei propri atti. Ora, nel concreto cosa significa questo perfezionamento? Vuol dire che l’uomo integra tutte le sue dimensioni: dunque, sostanzialmente, la dimensione affettiva, razionale ma anche quella vegetativa; in sostanza tutto quello che entra in un’azione. Cosa entra in un’azione umana? La motivazione, per esempio; entrano le capacità che uno ha, entrano gli affetti, entrano le sensazioni, la sensibilità, le circostanze. Tutto questo viene “preso” e integrato verso il bene dell’uomo. Detto in altro modo, tutte le componenti che noi abbiamo in un atto umano, da quelle più “basse” – pensiamo a un atto fisico, alla locomozione, al nutrirsi – fino a quelle più elevate, tutto questo ha una certa gerarchia, che ha al suo vertice la ragione dell’uomo.
Quindi, la virtù è precisamente questa integrazione di tutti gli aspetti della persona umana e dei suoi atti all’interno dell’ordine di ragione. Che cos’è l’ordine di ragione? L’ordine di ragione è la capacità di cogliere la verità del bene e di dirigere i propri atti verso questo bene. Da qui comprendiamo l’importanza della legge, di cui abbiamo già parlato (vedi qui e qui); la legge nel suo senso più ampio, come legge eterna, che viene partecipata all’uomo come legge naturale. Cioè, l’uomo coglie con la sua ragione l’ordine delle cose, la legge insita in sé stesso e nella realtà intorno a sé. Coglie le leggi umane e soprattutto la legge divina, che aiuta l’uomo in questa ricerca della verità del bene, laddove l’uomo facilmente potrebbe non cogliere degli aspetti, confondersi, scambiare una cosa per un’altra. Ma nell’atto concreto, poi, nella scelta concreta dei mezzi per raggiungere il fine, entra la virtù per eccellenza in questo settore, cioè la prudenza, a cui spetta proprio questo. La prudenza, potremmo dire, è una ragione pratica, una razionalità pratica: pratica non nel senso che è spiccia, che fa le cose, ma nel senso che entra nell’atto concreto, non nel versante speculativo.
Dunque, questo è il senso delle virtù all’interno di chi è l’uomo, a sua volta all’interno dell’ordine della creazione divina: Dio, perfetto in Sé stesso; gli angeli, che hanno una perfezione di natura, ma vengono chiamati a una perfezione superiore a cui devono rispondere, di qui la grande prova angelica; gli uomini, che hanno una loro natura, che hanno delle capacità che vanno portate a perfezione e che vengono ulteriormente chiamati a un fine che li supera. Questo è da tenere a mente, perché adesso cerchiamo di capire come si inserisce la carità all’interno delle virtù che l’uomo è chiamato a vivere per perfezionare la propria natura, per rendere buona, accrescere questo bene della propria natura e non invece degradarla attraverso degli atti di degradazione anziché di perfezionamento.
Abbiamo detto dell’ordine gerarchico di tutte le componenti che entrano nell’atto umano. Abbiamo parlato della ragione, ma non dobbiamo dimenticare che quando parliamo di ragione non possiamo escludere chiaramente quell’appetito razionale che è la volontà. E la volontà cosa fa? Tende al bene per aderirvi. Dunque, da questa dinamica della virtù, non possiamo escludere che cosa? L’amore. Se ci pensate bene, tutti gli uomini agiscono per un fine, ma questo fine in qualche modo è qualificato, è voluto con una tendenza affettiva, cioè si agisce in sostanza per qualcosa, qualcuno che si ama. Poi, che questo amore sia ordinato o disordinato è un’altra questione. Ma quando noi agiamo per un fine, in qualche modo tendiamo affettivamente a quel fine, vogliamo in qualche modo unirci a quel fine.
Ora, teniamo a mente questo e che l’uomo è stato chiamato da Dio non solo al perfezionamento della propria natura, ma a raggiungere un fine che oltrepassa la sua natura. Se teniamo insieme questi due aspetti – il fine che oltrepassa la natura e l’amore che in fondo è il motore affettivo verso il fine – possiamo comprendere qual è il ruolo fondamentale della carità nella vita delle virtù, nella vita morale dell’uomo. Che cos’è la carità? È quell’amore di Dio che è stato infuso nei nostri cuori. Cioè, è un dono: la carità non è una virtù nel senso che io la pongo in essere, frutto in qualche modo dei miei atti, è un dono che ricevo. Ma è un dono che fa che cosa? Mi porta verso quel fine amato che è già presente affettivamente in me. Se non ci fosse una presenza affettiva di Dio, nessuno si muoverebbe verso Dio; nessuno sarebbe attratto da Dio se Dio stesso in qualche modo non fosse presente ad attrarre a Sé.
E dunque questo cosa comporta? Comporta che la carità diventi una forma, una nuova forma di tutte le altre virtù. C’è la dizione forma virtutum, forma delle altre virtù. Cosa vuol dire? Vuol dire che la carità introduce nella vita delle virtù un nuovo dinamismo, che dispone l’uomo verso il fine ultimo che è l’unione con l’Amato, cioè l’unione con Dio. Questo nuovo dinamismo, questa nuova forma sopraggiunta alle virtù potremmo intenderla come il fine di tutte le altre virtù. Cioè, ogni virtù ha il suo fine proprio, che distingue la castità dalla fortezza, dalla magnanimità, eccetera. Ma tutte queste virtù, distinte tra di loro, vengono orientate dalla carità a un unico fine, che è il fine ultimo, che è il fine soprannaturale dell’uomo, cioè l’unione affettiva con Dio.
Dunque, cosa fa la carità? Ordina tutte le altre virtù a un fine più alto e ultimo, che appunto è un fine che viene raggiunto nel modo dell’unione, dell’unione affettiva. In questo senso, le altre virtù, senza la carità, sono imperfette. Attenzione: non è che non sono più virtù, non diventano vizi. Non vuol dire nemmeno che non hanno una bontà loro propria. Ma che raggiungono il proprio fine, il quale però a sua volta non è orientato a un fine ultimo: in questo sta l’imperfezione delle virtù senza la carità. Dall’altra parte, c’è il perfezionamento che la carità porta alle virtù: da qui la grande verità che «più grande di tutte è la carità» (1Cor 13,13).
Traiamo alcune conseguenze da questa verità, da questo ruolo che la carità ha nella vita delle virtù. Ricordiamo che in san Tommaso c’è la visione dell’uomo completo, dunque dell’uomo chiamato a una vita soprannaturale; non è l’uomo inteso in modo astratto come l’uomo puramente naturale. L’uomo è uno: sono due dimensioni (naturale e soprannaturale), ma uno è l’uomo, uno è il fine ultimo. Dunque, capite che la carità non è la ciliegina sulla torta, non può essere intesa così. Cioè, la carità è l’unione con Dio: se non c’è, l’uomo non raggiunge non uno dei suoi fini, ma il fine ultimo.
Cerchiamo di trarre alcune conseguenze da quello che abbiamo detto.
1) Di per sé, se ci pensiamo, non esiste propriamente un “atto di carità”, anche se nel linguaggio comune usiamo questo termine: se uno chiede un favore, si dice “fammi un atto di carità”, oppure “l’elemosina è un atto di carità”. In realtà sono atti distinti, quindi abbiamo la misericordia, l’elemosina, eccetera. Ma di per sé la carità non ha un atto proprio, ma ha il ruolo di informare, cioè dare forma nuova, a tutte le virtù, ciascuna delle quali ha il suo fine, e orientarle verso il fine più alto, il fine ultimo, che è l’unione con Dio.
2) Questo vuol dire – ed è la seconda conseguenza, legata a quello che abbiamo appena detto – che la carità non elimina le altre virtù, ma in qualche modo se ne serve o le suppone. La determinazione del bene spetta sempre alle altre virtù, cioè la carità non si sostituisce alle altre virtù, non le toglie, non le sopprime. Ogni virtù rimane una vera virtù nel proprio ordine; la carità le dà una nuova forma e la eleva. Dunque, su questo piano si apre tutto quell’ambito enorme di confronto tra il cristianesimo e le culture non propriamente cristiane, e gli ambiti non propriamente religiosi. Laddove ci sono delle virtù, autentiche nel loro ordine, il cristianesimo non ci dice che non sono virtù perché non c’è la carità: ci dice che sono virtù imperfette perché non sono ancora orientate al fine ultimo dell’uomo. Ma se sono virtù, sono virtù: dunque c’è un bene da questo punto di vista, che anzi chiede di essere raggiunto dalla carità come dono di Dio, dalla grazia, quindi di avere una nuova forma ed essere orientato verso il proprio fine, che è il fine ultimo dell’uomo.
3) Terza conseguenza, già accennata: le altre virtù, senza la carità, non raggiungono il loro fine ultimo. Raggiungono una finalità intermedia.
4) Quarta conseguenza: siccome la carità non sopprime le altre virtù, ma le suppone, a fortiori, ancor meno muta le altre virtù, cioè non trasforma il fine proprio delle altre virtù. La temperanza avrà sempre il suo fine. All’interno della temperanza, la castità avrà sempre il suo fine proprio; la fortezza avrà il suo fine. La carità non stravolge le virtù. E ancor meno fa diventare male un bene. Cioè, il vizio resta vizio, la virtù resta virtù. La carità non è in grado di trasformare un vizio in un bene.
C’è una certa teorizzazione di questo strano ruolo che avrebbe la carità, come se la carità scusasse o addirittura rendesse buone cose che di per sé sarebbero cattive, quasi una sorta di fine più alto che giustifica i mezzi usati più in basso. Non funziona così. La carità informa le virtù, eleva le virtù, ma le virtù devono essere virtù. Dunque, se l’oggetto morale di un atto è cattivo, non è che se uno lo fa per amore di Dio o per amore di qualcun altro diventa buono: non funziona così.
Ribadisco – anche in vista del prossimo incontro in cui introdurremo il senso delle virtù infuse – che la carità non è frutto dell’educazione umana. La carità è un dono. È un dono che Dio dà all’uomo, senza il quale l’uomo non potrebbe raggiungere il suo fine, cioè l’unione con Dio, la visione beatifica. E dunque c’è un precedente, un passo previo di Dio verso l’uomo. Vedremo che anche nelle virtù – per esempio quando tratteremo delle quattro virtù cardinali – parleremo in due sensi: la virtù “dal basso”, come risultato dell’azione dell’uomo; la virtù dall’alto, come dono infuso. Ad esempio, la prudenza infusa, la giustizia infusa, la fortezza infusa, la temperanza infusa.
La prossima volta proseguiremo il nostro discorso sulle virtù. Non sarà esaustivo, perché non è un corso di teologia morale o di filosofia morale, ma rimaniamo sempre all’interno del nostro discorso sulla creazione di tutte le cose visibili e invisibili, all’interno del quale ci siamo soffermati a lungo sulla creazione dell’uomo.
Le virtù necessarie
Le virtù non sono un dato di natura per l’uomo, ma un’acquisizione. Senza di esse l’uomo non può perfezionare la propria natura. Spieghiamo perché il senso moderno della libertà cozza con le virtù. Il ruolo della carità.
Introduzione alle virtù – Il testo del video
Le azioni umane hanno, tra i loro principi interni, le virtù. Esse sono l’agire libero dell’uomo orientato verso il bene e agiscono in sinergia con la grazia. La falsa dicotomia tra natura e libertà. E la concezione puritana da evitare.
Le divisioni della legge – Il testo del video
Ci sono diversi tipi di legge. Ogni vera legge implica una ordinatio rationis e dunque ha il suo fondamento nel Logos: Dio. La legge eterna partecipata alla creatura razionale si chiama legge naturale. La necessità delle leggi umane e della legge divina positiva.
Chi sono gli angeli – Il testo del video
Per i Padri gli angeli avrebbero un corpo sui generis, sottile, non carnale. Invece, per san Tommaso la distinzione radicale tra gli angeli e Dio sta nel fatto che i primi ricevono l’essere. La differenza tra conoscenza angelica e umana.