Le tre elezioni che hanno cambiato il Medio Oriente
Tre elezioni, fra il 2020 e il 2021, hanno cambiato completamente il grande gioco politico del Medio Oriente: Joe Biden negli Usa, la fine di Netanyahu in Israele e la vittoria di Raisi in Iran. Riprendono le trattative con Iran e Palestina. Ma riparte anche l'offensiva di propaganda palestinese, anche con risvolti religiosi gravi (e l'Italia è complice).
Tre recenti consultazioni elettorali hanno avuto importanti ripercussioni in Medio Oriente. La prima, del 3 novembre 2020 negli Stati Uniti, ha scalzato dalla Casa Bianca il repubblicano Donald Trump, riportandovi con ben altre vedute il democratico Joe Biden, vice presidente di Barack Obama. Quella del 23 marzo 2021 in Israele ha visto dopo quasi tre mesi di incertezze, lo spodestamento di Benjamin Netanyahu, premier per 15 anni, di cui 12 consecutivi, da parte di un suo “ex allievo “, Naftali Bennet, artefice di una coalizione multicolore, composta da partiti di destra, centro, sinistra e, per la prima volta, da un partito della minoranza araba. Ed infine quella del 18 giugno scorso nell’Iran che, contraddistinta dalla più bassa affluenza alle urne (del 48,8 %) in un’elezione presidenziale, ha riportato al potere un esponente degli ultraconservatori, Ebrahim Raisi .
Una vittoria data per scontata per l’esclusione dalla competizione dei riformisti e moderati e soprattutto del vice del presidente uscente Hassan Rouhani che aveva consolidato le pur deboli relazioni con i Paesi occidentali firmando con essi nel 2015 il cosiddetto JCPOA (Joint Comprehensive Plan of Action) ovvero l’accordo che impegnava l’Iran soltanto all’uso civile dell’energia nucleare. Ma nel 2018 il presidente statunitense Trump, sentendosene ingannato, si era tirato fuori dal trattato, imponendo per giunta delle sanzioni che hanno compromesso l’economia iraniana e aumentato la disoccupazione.
Rinnegando il passato, Biden si è allora prefisso di ristabilire il rientro statunitense nel trattato, ma si è trovato dinanzi una situazione difficile, sia per le maggiori rigidità dell’Iran nell’attivazione del negoziato sia per le evoluzioni o le involuzioni apparse nelle principali crisi regionali. Tanto da essere costretto a congelare le prospettive di ripresa delle trattative israelo-palestinesi che Netanyahu e Trump avevano accantonato, ritenendo improponibile per i fallimenti del passato la formula dei “due Stati per due popoli”. Semmai – questa la novità e la condizione – si fossero concretizzate le avances della nuova coalizione israeliana verso il presidente Abu Mazen, esponente massimo di Al Fatah e dell’Olp, il cui governo con sede a Ramallah controlla però soltanto la Cisgiordania. E comunque in ostilità ai palestinesi di Gaza, cioè i fondamentalisti islamici di Hamas ivi al potere, che come gli Hezbollah del Libano sono sostenuti militarmente dall’Iran. Potenza regionale che in tal modo preme da sud e da nord su Israele nella lotta ad oltranza contro la sua esistenza.
Su questo scenario è accaduto che il 30 agosto Abu Mazen abbia ricevuto l’inattesa visita del neo-ministro israeliano della Difesa, Benny Gantz; e, data l’importanza dell’iniziativa, lo stesso Abu Mazen all’inizio di novembre sia venuto a Roma per colloqui con il presidente Sergio Mattarella e il premier Mario Draghi; e in Vaticano sia stato ricevuto calorosamente da papa Francesco. Ha di nuovo proposto l’antico progetto dei “due Stati per due popoli” con Gerusalemme capitale divisa di entrambi. E ha trovato, stando ai comunicati ufficiali, rinnovati consensi, senza che nessuno degli interlocutori abbia avanzato dubbi o perplessità, non solo su questa idea, ma anche su altri gravi deficienze palestinesi (le citiamo più avanti) originate dall’ odio agli ebrei.
È pure avvenuto che, dopo il viaggio a Washington a fine agosto del neo-premier israeliano Naftali Bennet, Biden mantenga in sospeso il proposito di riaprire un consolato americano a Gerusalemme est, destinato a testimoniare le sue buone relazioni verso i palestinesi, ma rifiutandosi di stabilirlo a Ramallah. È noto che tale consolato fu chiuso perché trasformato in sezione dell’ambasciata che Trump trasferì da Tel Aviv nella “capitale unificata” di Israele. Ambasciata che rimane aperta a Gerusalemme, come appare vigorosa la vitalità del recente “Accordo di Abramo” realizzato da Netanyahu d’intesa con Trump; e invece detestato da Abu Mazen per l’avvenuta svolta nelle relazioni con i Paesi musulmani. Fra l’altro è avvenuto lo scambio di visite ad alto livello accompagnato dall’annuncio di nuove intese con gli Emirati del Golfo. Inoltre sono stati firmati due accordi definiti “importanti” rispettivamente con il Marocco su materie strategiche e di difesa e con la Giordania su scambi di energia solare e idroelettrica e per i quali saranno gli Emirati i fornitori di tecnologia.
Sviluppi che, paradossalmente, vengono avvertiti come ostili dalle istituzioni e dalla popolazione araba di Gaza e della Cisgiordania. Mentre, invano, ancora una volta, sono state denunciate da Israele le falsificazioni dei testi scolastici e delle mappe ufficiali palestinesi che ignorano la sua esistenza e negano la sua storia, e le insistenze nella pretesa che dal mare Mediterraneo al fiume Giordano tutta la terra “è, e sarà sempre” soltanto palestinese e musulmana. Altre gravi deficienze dell’Autorità Palestinese riguardano l’impiego di sovvenzioni dell’Unione Europea o dei suoi Stati membri per finalità politiche ostili a Israele; un trend seguito da almeno sei organizzazioni non governative palestinesi sovvenzionate dall’Italia, al centro di una denuncia e di polemiche.
Pure gran parte della popolazione araba della Galilea guarda con diffidenza la svolta politica avvenuta con l’ingresso del partito musulmano Ra’am nella coalizione di governo d’Israele che pure ha già varato un piano finanziario e di polizia per la lotta alla mafia araba locale, accusata di tensioni e delitti. Mentre quella di Gerusalemme continua la campagna di accoltellamenti a sorpresa contro civili israeliani che si è sviluppata negli ultimi due mesi, salutata come “eroica” dai fondamentalisti islamici, sullo sfondo della controversia giudiziaria per gli appartamenti occupati da arabi, e rivendicati da ebrei, nel quartiere Sheik Jarrah. Mentre non si acquieta la pretesa rivendicazione della pretesa sacralità, solamente islamica, della Spianata delle Moschee quando invece è luogo santo pure ebraico e cristiano.
Una controversia ben nota, che si è acuita per la conferma data il 1 dicembre alla infondata posizione palestinese dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Essa infatti con il voto di 129 Paesi membri – e fra questi l’Italia e tre altri Paesi dell’Unione Europea: Belgio, Francia e Spagna – ha insistito nella falsità storica di disconoscere i legami ebraici e cristiani con il Monte del Tempio indicandolo esclusivamente con il nome arabo Al-Haram al Sharif ; e In tal modo esaltandone la valenza storica e religiosa musulmana, come preteso dai paesi arabi e islamici.
Altri Paesi, evidentemente più sensibili alla cosiddetta “grande politica”, hanno evidenziato che rispetto ad una analoga risoluzione del 2018 c’è stato un aumento delle astensioni, passate da 14 a 31, soprattutto per la resipiscenza dell’Unione Europea, tanto che Ungheria e Repubblica Ceca hanno stavolta votato contro, mentre Bulgaria, Danimarca, Lituania, Paesi Bassi, Romania, Slovacchia e Slovenia si sono astenute. In Italia si attende invece una spiegazione sul voto da parte del ministro degli Esteri Luigi Di Maio che era stato preventivamente allertato da numerosi parlamentari di tutti i partiti, compresa una del M5S.
Meraviglia pure che del luogo santo cristiano del Monte del Tempio di Gerusalemme continuino a non parlare, oltre ai diplomatici impegnati nell’Assemblea dell’ONU, le autorità cristiane. Come se la controversia ebraico-musulmana non li riguardi o forse perché soddisfatti della “concessione” musulmana di far muovere la Via Crucis, il giorno del Venerdì Santo, dalla parte estrema della Spianata dove sorgeva ai tempi di Gesù la residenza di Pilato.
Altrettanto dicasi per la Tomba dei Patriarchi di Hebron. Vi si è recato nei giorni scorsi il presidente dello Stato di Israele Isaac Herzog e vi ha acceso la prima candela della festa di Hanukka ma l’Autorità palestinese ha subito denunciato che egli vi aveva fatto “irruzione” e l’aveva “profanata” con un atto equivalente a una “dichiarazione di guerra”, minacciando “gravi conseguenze”. Questo luogo santo da sempre venerato dagli ebrei perché vi sono sepolti Abramo, Isacco e Giacobbe, trasformato in chiesa durante il regno dei Crociati, divenne moschea dopo la conquista musulmana di Hebron nel 637 d.C. Israele, che vinse la “guerra dei sei giorni” del 1967, dispose quel ripristino dell’accesso ai fedeli ebrei, negato sempre dagli islamici. Ai quali però ha continuato ad assicurarne il culto.