Le figure retoriche, mezzi per conoscere meglio la realtà
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Lungi dall’essere un arido esercizio, le figure retoriche, se ben usate e conosciute, sono un’occasione per esprimere meglio il nostro pensiero e la realtà, per capire più profondamente la riflessione altrui.
La scrittura è sempre, in qualche modo, un atto poetico, che ha a che fare da un lato con la creazione (in greco poesis), dall’altro con l’uso della parola che è, in un certo senso, espressione stessa dell’uomo, del suo ingegno, della sua ricerca della verità. La parola è testimonianza di un cammino dell’uomo che ha preso coscienza di sé nel tempo della storia. La parola è, al tempo stesso, racconto, deriva da «parabola», che a sua volta proviene da un verbo greco che significa «mettere a confronto, paragonare». La parabola è, infatti, un genere letterario che consiste nel racconto di un fatto o di una storia per comunicare un concetto più complesso. La parola è, quindi, in sé e per sé già una storia, la rievocazione di un’avventura, di una vicenda umana, che nasconde in sé l’affermazione di un significato e di un senso.
Lo scrittore può utilizzare le parole in modo preciso, ripetendole con efficaci poliptoti o sostituendole con precisi sinonimi o richiamandole attraverso figure etimologiche. Quindi, l’insistenza stessa su una parola può trasmettere a sua volta un’altra immagine, un sentimento, un’emozione. Eccovi qualche esempio che mostra come non sempre l’uso dei sinonimi comunichi meglio. Nel canto dei suicidi (Inferno XIII) Pier della Vigna si difende con un’orazione di soli ventiquattro versi, capolavoro di sintesi retorica. Per descrivere il processo con cui l’invidia agisce e divampa, Pier della Vigna utilizza l’immagine della fiamma, ripetendo il verbo «infiammare» in un efficacissimo poliptoto («infiammò», «infiammati», «infiammar»). L’azione distruttrice, all’inizio lenta e quasi invisibile, di una fiammella che, poi, rapidamente devasta tutta una costruzione rende realisticamente la rapida distruzione che arreca l’invidia.
Nella stessa sintetica orazione il segretario dell’imperatore Federico II insiste su termini appartenenti al campo semantico della giustizia («ingiusto», «giusto») utilizzando una paronomasia o figura etimologica, mostrando come lui, che è sempre stato «giusto» e fedele a Federico II, divenne «ingiusto» contro sé stesso, suicidandosi. Non si può amare e agire bene se prima non ci si ama. Il giudizio sul suicidio è rivelato attraverso l’espressione «disdegnoso gusto», rimarcato, di nuovo, con la paronomasia del verso successivo «disdegno». Non sempre, quindi, la sostituzione di un vocabolo con un sinonimo rende lo scritto più adeguato alla finalità comunicativa.
Siamo entrati in un ambito particolare dell’elocutio (scrittura) che si chiama ornatus e che potremmo anche definire come l’abbellimento della forma attraverso l’uso delle figure retoriche. L’elegantia (appropriata, precisa, piacevole scelta lessicale) si deve coniugare con l’ornatus.
La figura retorica più utilizzata nel campo poetico è la metafora, che mostra tutta la potenzialità dell’uso della retorica e come l’utilizzo di una parola al posto di un’altra abbia in sé una funzione conoscitiva. La retorica non è, quindi, un orpello esteriore e vuoto, ma uno strumento sostanziale per conoscere meglio la realtà. A due condizioni, però: che lo scrittore se ne avvalga in modo appropriato e studiato; che il lettore sia disposto a percorrere la strada della conoscenza insita nella scelta delle parole. Occorre, quindi, una disponibilità di tempo nella lettura. Mi spiego meglio. Emanuele Tesauro, autore del Cannocchiale aristotelico, il trattato di retorica più famoso del Seicento, scrive:
Se tu di’: «Prata amoena sunt», altro non mi rappresenti che il verdeggiar de’ prati; ma se tu dirai: «Prata rident», tu mi farai (come dissi) veder la terra essere un uomo animato, il prato esser la faccia, l’amenità il riso lieto. Tal ché in una paroletta transpaiono tutte queste nozioni di generi differenti: terra, prato, amenità, uomo, anima, riso, letizia. E reciprocamente con veloce tragitto osservo nella faccia umana le nozioni de’ prati e tutte le che passano fra queste e quelle, da me altra volta non osservate.
L’ingegno poetico usa una parola al posto di un’altra e muove il lettore o l’ascoltatore alla scoperta della verità e della storia che è nascosta sotto quel termine. La poesia diventa così scoperta, impone un processo conoscitivo alla ricerca della verità nascosta e, ad un tempo, rivelata. Ecco perché Ungaretti scrive ne Il porto sepolto:
Vi arriva il poeta
E poi torna alla luce con i suoi canti
E li disperde
Di questa poesia
Mi resta
Quel nulla
Di inesauribile segreto.
Lo scrittore, ancora, può utilizzare delle parole con valore simbolico: il simbolo ha un valore convenzionale in una certa epoca o cultura. L’uomo medioevale riconosceva subito nell’immagine della selva dantesca e delle tre fiere rispettivamente lo smarrimento e tre vizi. Lo scrittore può avvalersi anche della metonimia (in greco “scambio di nome”), che consiste nella sostituzione di un nome con un altro che abbia con il primo un rapporto: come la causa sta all’effetto (“sentire il telefono”) o il contenente sta al contenuto (“bevi un bicchiere”) o l’autore sta all’opera (“che bel Picasso hai appeso nel tuo soggiorno”) o il materiale per l’oggetto (“ferro” per “spada”) o il patrono con la chiesa (“vado in San Pietro”), lo strumento con chi lo adopera (“è il primo violino della Scala”), il concreto con l’astratto (“onorare la maglia”).
Abbiamo incontrato oggi solo cinque figure retoriche: il poliptoto, la figura etimologica, il simbolo, la metafora, la metonimia. Ma esse sono quasi trecento, che per semplicità di apprendimento possono essere classificate in figure di suono (come l’allitterazione, l’assonanza, l’onomatopea e la paronomasia), di ordine (l’anafora, l’anastrofe, l’antitesi, l’asindeto, il chiasmo, l’ellissi, l’iperbato e il polisindeto), di significato (che riguardano l’aspetto delle parole, come la metafora). Molti di noi hanno studiato le figure retoriche come se fossero un arido esercizio di riconoscimento di artifici in un testo. Al contrario, la conoscenza delle figure retoriche è un’occasione per esprimere meglio il nostro pensiero, la nostra storia e la realtà, per capire più profondamente la riflessione altrui. Se non le possediamo, coglieremo solo una parte della comunicazione altrui. Comprenderemo solo una parte della realtà.
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