Le banche centrali ce l'hanno fatta. È arrivata l'inflazione
A forza di iniettare fiumi di liquidità creata dal nulla, è esplosa l’inflazione, la “medicina” che le Banche centrali stanno somministrando per abbattere il valore reale dei debiti fuori controllo. Il conto lo paga la classe media e medio-bassa, dai piccoli risparmiatori ai titolari di redditi fissi: salari, stipendi e pensioni. Il “socialismo finanziario” fa un ulteriore passo in avanti.
- LA RIPRESA CHE NON C'È di Ruben Razzante
Negli ultimi mesi, i prezzi di beni e servizi hanno iniziato a salire, sensibilmente: non soltanto quelli del gas naturale, a cui si devono principalmente i rincari, ma anche quelli di petrolio, carburante, metalli e materiali industriali, fino ad arrivare ai prodotti alimentari. La paventata ripresa dell’inflazione, trainata in particolare dai fortissimi rialzi delle materie prime energetiche, si è concretizzata nei rincari a doppia cifra delle bollette di gas e luce e si sta estendendo anche ai prezzi del carrello della spesa: negli ultimi mesi, il tasso annuo di inflazione è balzato al 7% negli Usa, sui massimi da quarant’anni, ed oltre il 5% nell’area euro. In Italia l’inflazione ha toccato il 4,8%, il livello più alto dal lontano 1996.
Domandiamoci quali siano le cause, remote e prossime, di dinamiche che costituiscono, per l'Unione Nazionale Consumatori, una «Caporetto per le tasche delle famiglie»: una stangata valutabile – a seconda del pattern di consumo dei vari nuclei familiari – da svariate centinaia ad alcune migliaia di euro annui. Per tacere dei gravi danni per il sistema industriale, in particolare per le aziende più “energivore”, cioè più dipendenti dai costi energetici.
Tra le cause remote, possiamo sicuramente additare le politiche monetarie ultra-espansive delle Banche centrali che da oltre dieci anni – e in ulteriore fortissima accelerazione post-CoViD – inondano i mercati di liquidità creata ex-nihilo, mantenendo artificialmente compressi i tassi nominali di rendimento dei titoli obbligazionari, governativi e corporate. In tal modo, le autorità monetarie hanno tentato di stabilizzare una massa di debiti, pubblici e privati, sempre più fuori controllo, cresciuti esponenzialmente nel tempo proprio grazie alle politiche di “repressione finanziaria” adottate dalle Banche centrali stesse. Per “svalutare” questa enorme massa di debiti in termini reali, le Banche centrali cercano da anni di far salire il tasso di inflazione, in modo da portare in territorio negativo i rendimenti reali (= rendimenti nominali – tasso di inflazione): dopo tanti sforzi ce l’hanno fatta. Attraverso le Banche centrali, solo formalmente indipendenti ma in realtà “bracci armati” dei rispettivi governi, il potere politico ha agito e continua ad agire come un falsario, col risultato di penalizzare il risparmio avvantaggiando i debitori, a partire da se stesso: i rendimenti reali negativi costituiscono infatti una sorta di tassa iniqua sul risparmio e sui redditi fissi (prevalentemente salari, stipendi e pensioni), non votata da nessun Parlamento, e per di più assai poco trasparente. La Banca centrale europea continua a descrivere l’inflazione come un fenomeno transitorio, non particolarmente preoccupante, in modo da potere proseguire ad oltranza con la propria politica monetaria di trasferimento di redditi e ricchezza dalla formica risparmiatrice alla cicala debitrice: rimane da vedere quanto a lungo potrà reggere tale “narrazione” a fronte di dinamiche inflazionistiche oggettivamente preoccupanti.
Tra le cause prossime del risveglio prepotente dell’inflazione, possiamo individuare le politiche fiscali fortemente espansive attuate dai governi per fronteggiare la grave crisi economica indotta dai lockdown generalizzati – decisi peraltro dagli stessi governi –, che hanno provocato anche la frammentazione delle filiere produttive e distributive, con sensibili restrizioni e strozzature lato offerta, anche sulle forniture energetiche, con ovvie conseguenze sulle dinamiche dei prezzi. Occorre anche sottolineare che tali squilibri non dipendono solo dalla ripartenza delle economie mondiali dopo trimestri di sostanziale blocco, ma sono stati esacerbati dal contestuale incremento della domanda, artificialmente spinta dalle suddette politiche monetarie e fiscali fortemente espansive. Sulla “qualità” della ripresa economica in atto, nel nostro Paese ma non solo, ci sarebbe poi molto da dire: da un lato, essa risente dell’effetto base perché ci si confronta con l’anno precedente in cui la strategia delle chiusure indiscriminate aveva inchiodato l’economia; dall’altro, i rialzi del Pil sono dovuti ad un allargamento sensibile della spesa e del debito pubblico, mentre i privati, in specie le piccole e medie imprese rimangono in affanno. La crisi, insomma, come era facilmente prevedibile, ci ha lasciato in eredità ancora più Stato e più debiti, oltre alle difficoltà dei privati e all’inflazione: è quindi difficile condividere l’entusiasmo di molti commentatori economici sulla “forte ripresa” dell’economia.
A queste cause generali, valide pressoché ovunque nel mondo, si aggiungono in Europa delle motivazioni specifiche legate alle scelte di politica energetica degli anni passati, con investimenti insufficienti e senza adeguata diversificazione dei fornitori e delle fonti energetiche stesse. Scelte che hanno portato a una situazione di fragilità strutturale, esacerbata negli ultimi trimestri dalle tensioni con la Russia di Putin, nostro principale fornitore di gas (in Italia il gas russo copre circa il 40% del fabbisogno). Tutto ciò ha spinto i prezzi del gas naturale liquefatto in Europa – seppur dimezzatosi rispetto ai picchi stratosferici di metà dicembre – ad assestarsi nelle ultime settimane su livelli pari a cinque volte tanto rispetto ai livelli dell’estate 2020, livelli tre volte superiori rispetto a quelli praticati negli Stati Uniti, anch’essi peraltro in forte rialzo negli ultimi 18 mesi. Una ripresa stabile dell’inflazione, con contestuale rallentamento dell’attività economica, riproporrebbe quegli inquietanti scenari di “stagflazione” (“stagnazione + inflazione”) che non si sono più presentati dagli shock petroliferi degli anni ’70. Ciò metterebbe definitivamente a nudo l’errore delle politiche monetarie e fiscali neokeynesiane attuate nei lustri passati, a cui si sono aggiunte recentemente le politiche energetiche green.
Insomma, le motivazioni delle forti tensioni sui prezzi degli ultimi mesi sono molte e interconnesse tra loro, ma si può dire che non ci troviamo certamente di fronte a eventi naturali avversi, imprevedibili e inevitabili, e neppure a fenomeni di tipo “speculativo”; più semplicemente, si tratta delle conseguenze, previste, di scelte politiche errate. A tal proposito, il catastrofismo ecologista – che nulla ha a che vedere con una corretta ecologia – porta sicuramente una parte importante di responsabilità: in Europa la cosiddetta decarbonizzazione, con la chiusura programmata delle centrali a carbone e l’obiettivo di arrivare a emissioni nette nulle di anidride carbonica per il 2050, sta infatti determinando una «transizione energetica» assai accidentata, che paga il prezzo di scelte ideologiche. Anche se l’epicentro della crisi energetica al momento è in Europa, la transizione ecologica decisa nell’Agenda Onu 2030 sul cosiddetto «sviluppo sostenibile» avrà inevitabilmente un impatto globale e duraturo nel tempo: è uno tra i punti chiave, anche se non l’unico, del progetto del Great Reset per gli Anni Venti del nostro secolo, assai poco ruggenti finora. A tale proposito, Bill Gates ha parlato dell’extra costo connesso alla transizione verso le energie rinnovabili, definendolo col termine di «green premium», «premio verde»: secondo sue stime, si parla al momento di 5mila miliardi di dollari Usa di costi aggiuntivi su un’economia globale che vale circa 80mila miliardi di dollari (dati annui). Tale costo graverà su contribuenti e consumatori, e perché sia accettabile occorre che sia sostenuto da un adeguato story-telling: come dice Gates, se non iniziamo a bloccare subito le emissioni di gas serra, «ogni anno moriranno milioni di persone per il cambiamento climatico, e contro ciò non ci sarà nessun “vaccino” disponibile». Dall’emergenza sanitaria alla “pandemia climatica”: insomma, mano ai portafogli e zitti, non disturbiamo il manovratore.
Le ideologie, ce lo insegna la storia, sono sempre state costose, non solo sul piano della libertà ma anche semplicemente su quello economico. L’auspicio è quello di un “ritorno al reale”, della fine di uno stato d’eccezione continuo: occorre fermare il programma di «transizione energetica», oggetto del Green New Deal europeo, e attuare un cambio di rotta delle politiche monetarie e fiscali, per tornare a privilegiare il risparmio e difendere la libertà di iniziativa economica dei privati contro l’invadenza crescente degli Stati e delle realtà sovranazionali come l’ONU. L’unico vero reset di cui abbiamo bisogno è la libertà.