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La strategia di Tito: "infoibare" la Chiesa cattolica

Il regime comunista della ex Jugoslavia mirava a colpire la vita ecclesiale per fare pulizia etnica degli italiani. Chi non si piegava finiva nelle foibe. Ne fecero le spese anche don Miroslav Bulešić e don Francesco Bonifacio, due sacerdoti (oggi beati) barbaramente torturati e uccisi dai miliziani. La loro colpa? L'odio comunista per la religione.

Ecclesia 10_02_2023

Il 10 febbraio del 1947, l’Italia ratifica il trattato di pace e cede l’Istria, l’entroterra triestino e goriziano e la Dalmazia, con le sue isole, alla Jugoslavia. Josip Broz, nome di battaglia, “Tito”, capo delle forze jugoslave, ha preso il potere politico e militare già dall’immediato secondo dopoguerra. La strategia è precisa: servendosi dell’OZNA – la polizia segreta istituita sul modello del comunismo sovietico –, bisogna liberare le terre abitate da secoli dagli italiani. I Comitati Popolari di Liberazione fungono da rete spionistica contro i cosiddetti “nemici del popolo”: coloro che non accettano di dirsi comunisti. 

Per procedere alla pulizia etnica degli italiani, Tito si serve delle foibe, crepacci naturali, tipici di quelle zone, imbuti che sprofondano nelle voragini della terra fino a 200 metri: come un grattacielo a testa in giù che si sviluppa nel buio della terra. Là venivano gettati quanti avevano la colpa di essere italiani, e pure non comunisti. La procedura era abbastanza semplice: recuperati porta a porta i dissidenti, venivano legati l’un l’altro con un filo di ferro fino a formare una catena, si sparava al primo il cui peso morto avrebbe trascinato tutti gli altri, vivi, nella foiba. Così venne innescato il grande esodo giuliano (Istria), dalmata (Dalmazia), fiumano (Fiume) che costrinse oltre 350 mila italiani ad abbandonare le proprie case, e il resto ad essere perseguitati o uccisi. 

La Chiesa cattolica divenne in breve la prima istituzione da eliminare, in nome di un non nascosto ateismo comunista e dell’idea che indebolire la vita ecclesiale avrebbe tolto un punto di riferimento agli italiani. Tito proibì da subito ogni sorta di attività religiosa e tanti edifici sacri andarono distrutti.  Solo nelle diocesi che oggi fanno parte della Croazia, si è consumato uno dei peggiori martiri di sacerdoti cattolici fra tutti i Paesi dominati dal comunismo. In quegli anni la guerra al cattolicesimo passò soprattutto per le cresime. Per via della guerra, infatti, non s’era potuto amministrare il sacramento a lungo ed erano ormai diverse centinaia i ragazzi che chiedevano il sacramento. Ma i soldati di Tito facevano di tutto per impedire le celebrazioni: il futuro dei giovani croati doveva appartenere al Partito Comunista e non alla Chiesa, sentenziavano.

In questa guerra spietata al cattolicesimo, inciampa il destino di don Miroslav Bulešić. Nel 1947 è sacerdote da soli quattro anni, ma già risulta molto fastidioso per il governo comunista; gira di casa in casa per conoscere i parrocchiani e sollecitarli ad una partecipazione più attiva alla vita religiosa, organizza il catechismo e conferenze spirituali come alternativa coraggiosa all’ateismo di regime. Gli si fa notare che così facendo corre il rischio di essere ucciso, ma a tutti replica: “Se così sarà, vuol dire che mi uccideranno per Dio e per la fede”.

Nell’agosto di quell’anno, si dedica ad accompagnare il delegato della Santa Sede, monsignor Jakob Ukmar, per l’amministrazione delle cresime in tutte le parrocchie dell’Istria. La faccenda delle cresime sta diventando sempre più un problema per il regime, e se il 19 agosto del ’47, a Pisino, i miliziani di Tito bloccano le strade per impedire ai cresimandi di raggiungere le parrocchie (ma l’ostacolo viene aggirato miracolosamente), sabato 23 agosto, le truppe comuniste decidono di fare irruzione direttamente nella parrocchia di Pinguente per interrompere il rito. Ma quando un manipolo di miliziani si sta per scagliare contro il tabernacolo per profanare l’Eucaristia, don Miroslav si interpone e, sudando freddo, grida: “Di qui potrete passare soltanto con me morto!”. Un omicidio al cospetto di oltre duecento cresimandi sarebbe stato difficile da insabbiare, così desistono. Ma si ripresentano il giorno dopo, nel paesino accanto, dove si celebrano le cresime per un nuovo gruppo di ragazzi.

Ormai la voce di quello che i partigiani comunisti stanno facendo si è diffusa ovunque, e a Lanischie, un cordone spontaneo di fedeli s’è messo a protezione della chiesa: i sacerdoti sono stati minacciati di morte se non annulleranno la funzione, ma tutto prosegue come se nulla fosse.  I comunisti seguono, così, i sacerdoti nell’attigua canonica. È un attentato in piena regola. Don Miroslav viene prima preso a bastonate e poi accoltellalo con diversi fendenti alla gola. Don Ukmar lo sentirà ripetere più volte: “Gesù accogli l’anima mia”, e sarà egli stesso, testimone sopravvissuto miracolosamente all’agguato, a raccontare tutto a Roma, appena ne avrà facoltà. Le milizie comuniste, infatti, prenderanno anche don Ukmar torturandolo a suon di botte e bastonate, e credendolo morto, lo lasceranno a terra in una immensa pozza di sangue: racconterà di essere rimasto svenuto per più di dodici ore. Papa Benedetto XVI ha firmato il decreto per la beatificazione di don Miroslav Bulešić il 20 dicembre 2012: ucciso in odium fidei.

Destino analogo toccherà a don Francesco Bonifacio. Da sacerdote vive in prima linea quel che gli italiani d’Istria stanno subendo. Siamo a Villa Gardossi, 1300 anime disseminate in casupole lungo i pendii collinari tra i paesi di Buie e Grisignana. Don Bonifacio è ormai famoso per impedire esecuzioni sommarie, dare sepoltura cristiana alle vittime della persecuzione comunista, difendere le case da saccheggi e ospitare chiunque chiede aiuto.  Gli atti antireligiosi sono all’ordine del giorno, ma a fare da controcanto c’è la predicazione di don Bonifacio, sempre controllata, mai astratta, rende comprensibile a tutti gli aspetti della vita socio-politica di quegli anni e si fa profetica sui precisi segnali di un tragico e imminente futuro. La fermezza, la dedizione, la sua capacità di polarizzare intorno a sé tutta la popolazione e soprattutto i  più giovani – che, gli rimprovera il regime, “non seguono la propaganda di ateismo e le iniziative del regime, ma sono con lui” – si fanno per Tito un ostacolo intollerabile. Si parla di lui nelle riunioni di partito.

Don Francesco sa del pericolo incombente e lo confida ad alcuni confratelli e al vescovo. Il pomeriggio dell’11 settembre, va da un confratello, don Rocco, per confessarsi.  Lungo la strada verso casa  verrà fermato da alcune guardie popolari e visto sparire nel bosco scortato dai comunisti. Sequestrato, spogliato, insultato, sarà torturato e umiliato, riempito di botte, preso a sassate e infoibato. I suoi resti non sono mai stati identificati. “Trova la morte solo nell’odio che i comunisti hanno verso il prete come tale”: Benedetto XVI, nel 2008, ha firmato il decreto di beatificazione del Servo di Dio Francesco Bonifacio, martire, ucciso in odio alla fede nel settembre del 1946 in una foiba di Villa Gardossi, in Istria.

Solo nel 2004, una legge dello Stato voluta dal governo Berlusconi II ha istituito il Giorno del Ricordo per promuovere la memoria e rendere omaggio agli italiani di Istria, Fiume e Dalmazia massacrati tra il 1943 e il 1948. Nessun miliziano comunista ha mai dovuto rispondere dei crimini commessi.