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Ora di dottrina / 125 – La trascrizione

La preparazione alla grazia – Il testo del video

La grazia richiede una preparazione da parte dell’uomo? San Tommaso spiega che la grazia abituale esige una preparazione, che a sua volta presuppone la grazia attuale. L’intreccio tra libertà e grazia. L’errore di Luis de Molina.

Catechismo 21_07_2024

Proseguiamo le nostre Ore di dottrina sulla grazia. Oggi vediamo un argomento interessante, trattato dalla quæstio 112 della I-II della Somma Teologica, che ha per titolo “La causa della grazia”. In realtà, ci interessa soprattutto il tema della preparazione alla grazia o predisposizione alla grazia. San Tommaso esordisce in questa quæstio con l’articolo 1 che abbiamo già visto, quando abbiamo parlato di chi è all’origine della grazia, perché la grazia è un dono soprannaturale. E in questo articolo san Tommaso spiega appunto che solo Dio è la causa della grazia. Va da sé che solo Dio può dare la natura divina, cioè solo chi ha la natura divina per essenza – perché Dio – può parteciparla a chi non è Dio per natura. Dunque, è una ragione ontologica, strutturale, quella per cui solo Dio è la causa della grazia.

Come abbiamo già accennato e avremo ancora modo di vedere quando ci interesseremo di tutto l’enorme capitolo che riguarda la seconda Persona della Trinità, incarnata, Gesù Cristo, affermare che solo Dio è la causa della grazia non significa escludere che Gesù Cristo sia la causa della grazia. Perché? Perché, la sua natura umana è congiunta con la sua natura divina, tant’è vero che il dogma è quello dell’unica persona divina, con due nature. Dunque, si dice che la natura umana di Cristo è lo strumento congiunto alla divinità per causare la grazia.

Inoltre, l’affermazione che Dio è l’unica causa della grazia non significa nemmeno escludere la causalità dei sacramenti, i quali non agiscono per virtù propria, ma in quanto strumenti dell’azione divina. Lo strumento non è la causa di qualcosa, ma la causa è colui che agisce tramite lo strumento, si rende presente o rende presente la sua azione, che è la vera causa di ciò che avviene tramite lo strumento.

Tra l’affermazione che Dio è causa dell’essere, come abbiamo visto nella creazione, e che Dio è causa della grazia, c’è certamente un’analogia e anche una differenza, altrimenti sarebbe un’affermazione identica. Cioè, Dio non è causa dell’essere nello stesso modo in cui è causa della grazia. Che cosa vuol dire? Vuol dire che nella causalità divina, quanto all’essere, cioè la creazione (rimandiamo a tutte le catechesi che abbiamo dedicato ad essa), Dio crea l’essere ex nihilo, dal nulla. Cosa vuol dire? Vuol dire che non c’è nulla di preesistente a cui Dio aggiunge una qualità: è proprio una creazione dal nulla.

Invece, la causalità legata alla grazia non è dal nulla. In che senso? Non significa evidentemente che nell’uomo ci sia qualcosa che diventi  grazia per virtù sua; ma nel senso che la grazia, chiaramente, è creata da Dio a partire da un soggetto. Un soggetto che riceve questa qualità sopraggiunta, che è appunto la sua divinizzazione. Dunque, non c’è il nulla, ma un soggetto. E da parte del soggetto si richiede una cosa sola: il termine tecnico-teologico che ci viene dalla teologia di san Tommaso è che l’uomo sia capax Dei, cioè che chi riceve questa nuova perfezione soprannaturale, la grazia, sia capace di riceverla. Non capace di produrla, di ottenerla, perché è un dono divino, viene da Dio: non la produciamo noi, ma viene dalla liberalità di Dio, non dai nostri meriti. Eppure, per essere capace, l’uomo deve avere un’apertura, per così dire, per poterla ricevere. Ed è per questo che l’uomo e gli angeli sono i destinatari della grazia, perché sono le due creature che sono appunto capaci di Dio, capaci di ricevere questa vita soprannaturale che produce una vita nuova nelle facoltà dell’intelletto, della volontà.

I punti più delicati di questa quæstio sono l’art. 2 e l’art. 3, i quali in sostanza cercano di rispondere a una domanda. Posto che Dio è la causa della grazia, la grazia richiede una preparazione da parte dell’uomo? Classica domanda da un milione di dollari, che ha fatto scrivere un milione di pagine di autori importanti, alcuni anche eretici, perché sono nate diverse dispute su questa questione. Ma andiamo con ordine.

C’è una massima teologica che risponde a questa domanda, ma che ha bisogno di un’interpretazione corretta. La massima è questa: Faciendi quod in se est, Deus non denegat gratiam; cioè, “a colui che fa quanto è in lui (secondo le sue capacità), Dio non nega la grazia”. Dio non nega la grazia a coloro che fanno quanto è in loro, per predisporsi a ricevere la grazia. Ora, questa frase, come molto spesso avviene nell’ambito della teologia, acquista un significato diverso in base all’interpretazione che le viene data. Una frase deve essere sempre accompagnata dall’interpretazione che le dà la Chiesa, alla luce della Rivelazione divina.

Una delle interpretazioni deviate e devianti è stata quella di Pelagio e della sua eresia dei primi secoli, il pelagianesimo. In sostanza, Pelagio diceva che le nostre buone opere naturali, cioè le opere umane, meritano la grazia, la quale quindi in qualche modo ci è dovuta; cioè, la grazia, secondo Pelagio, è la corrispondenza che Dio dà alle nostre azioni. Chiaramente, interpretare in questo senso l’adagio teologico di cui sopra, è eretico. Perché la grazia non è dovuta all’uomo, non è dovuta alla sua natura, non è dovuta ai suoi atti.

Un’altra interpretazione, meno palesemente eretica, è che Dio dà la grazia a chi non mette ostacoli: il che, potremmo dire, è vero. Ma come abbiamo visto, il punto è che nello stato di natura decaduta non si può stare senza peccare senza il soccorso della grazia. Nella natura decaduta i nostri atti umani, se non ricevono il soccorso della grazia, non sono in grado di permanere globalmente, sostanzialmente senza peccare; il che non significa – come abbiamo già precisato – che allora ogni atto umano di una persona che non è in grazia sia un peccato.

San Tommaso, come sempre, spicca per il suo realismo e fa una distinzione che cerchiamo di presentare con chiarezza. Distingue tra la grazia abituale e la grazia attuale. La grazia attuale, cioè le ispirazioni, le mozioni interiori, le illuminazioni non richiedono una disposizione, cioè sono un’iniziativa divina. La grazia abituale – che chiaramente viene da Dio, ha la sua causa in Dio – esige invece una preparazione. C’è un punto decisivo sottolineato da san Tommaso: «Lo stesso moto virtuoso del libero arbitrio, con cui uno si prepara a ricevere il dono della grazia [intesa qui come la grazia santificante, la grazia abituale] è un atto del libero arbitrio mosso da Dio» (I-II, q. 112, a. 2).

In sostanza, che cosa ci sta dicendo qui san Tommaso? Ci sta dicendo che la preparazione alla grazia abituale, alla grazia santificante presuppone la grazia attuale. Dunque, bisogna prepararsi, disporsi a ricevere la grazia abituale? Sì. Ma il punto è che questa predisposizione, questo prepararsi a, non avviene mai senza la grazia: è un intreccio delle mozioni divine che stimolano, supportano, illuminano, fortificano, correggono gli atti umani. E qui è impossibile chiaramente andare con un righello e segnalare “questo viene da Dio”, “questo viene dall’uomo”; non è possibile questo tipo di distinzione, è una sinergia. Alla domanda se ci si possa predisporre alla grazia (abituale), la risposta è affermativa. Ma attenzione: questa predisposizione è già un’azione della grazia.

Torniamo alla frase di partenza: Faciendi quod in se est, Deus non denegat gratiam. Questo fare ciò che si può – questa è l’interpretazione corretta, cattolica, di questa frase – non è un atto puramente naturale: è chiaramente un atto dell’uomo, ma non è un atto puramente naturale; è già un atto mosso, sostenuto, accompagnato e portato a compimento dalla grazia. Questo è il punto fondamentale. Il concorso del libero arbitrio, in questa sinergia con la grazia, non comporta alcuna necessità della grazia, che resta realmente un puro dono di Dio, contro invece l’affermazione di Pelagio. Questo è un punto importantissimo. La famosa frase di Nostro Signore – «senza di me non potete fare nulla» (Gv 15, 5) – è assolutamente vera, anche in questo predisporci alla grazia. Il che, attenzione, non significa che allora noi stiamo a guardare per aria finché non ci arriva la grazia, per la ragione che dicevo prima: la grazia non ci viene recapitata tramite raccomandata, del tipo “adesso ce l’ho, posso fare questo”. Ma è proprio questo gioco di una mozione interiore, che spesso neanche riconosciamo come tale, alla quale noi rispondiamo, a cui si aggiunge una luce, a cui noi rispondiamo, a cui si aggiunge un’altra grazia, a cui noi resistiamo, e poi si aggiunge un’altra grazia per correggerci, eccetera: c’è tutto questo intreccio meraviglioso, che capiremo solo in Paradiso e che richiede la nostra collaborazione. Ma proprio perché è realmente la nostra collaborazione, essa è sostenuta dalla grazia, non è sostituita dalla grazia.

Nell’art. 3, san Tommaso tocca un altro punto importante: com’è che la grazia non sempre raggiunge il suo effetto? O almeno così sembra. Com’è che in Tizio la grazia porta frutto e in Caio no? O perché in Tizio fruttifica cento volte – come il famoso seme della parabola – e nell’altro produce il trenta? Anche su questa questione sono stati versati fiumi di inchiostro, spesso e volentieri, almeno in età un po’ più moderna, ma non contemporanea (penso a Molina), finendo per porre delle distinzioni che in realtà erano distinzioni non reali e che hanno finito per creare più problemi di quanti ci si proponeva di risolvere . Cerchiamo adesso di capire questa questione.

C’è una grande discussione riguardo alla distinzione tra grazia sufficiente e grazia efficace. Questo teologo spagnolo, gesuita, del XVI secolo, Luis de Molina (1535-1600), aveva introdotto questa distinzione perché già in qualche modo, nella sua impostazione, c’era qualche problema. In che senso? Per lui il tema fondamentale era come salvare il libero arbitrio dell’uomo, la libertà dell’uomo, dalla grazia. Questo è paradossale perché, se ricordate gli scorsi incontri (vedi ad esempio qui e qui), una cosa su cui san Tommaso insiste molto è proprio il fatto che la grazia di Dio, proprio perché divina, agisce nell’uomo per supportare, sostenere ed elevare le sue facoltà, non per provocare una coercizione.

Quindi, un’idea già distorta della grazia ha fatto sì che in qualche modo nascesse questo problema: “come facciamo a salvare l’uomo, la libertà dell’uomo, dalla grazia”? Quasi che la grazia possa porsi in antagonismo con la libertà dell’uomo. E Molina era arrivato a questa soluzione: la grazia è sufficiente, ma perché diventi efficace necessita della nostra cooperazione. La nostra cooperazione è ciò che permette alla grazia di passare da sufficiente – sufficiente, quindi non coercitiva nell’ottica di Molina – ad efficace. Ma questa impostazione non è quella di san Tommaso. San Tommaso è troppo realista e ha una concezione molto profonda della grazia per potersi anche solamente porre il problema di come salvare la libertà degli uomini dalla grazia: questo problema per san Tommaso è un nonsenso. San Tommaso, semmai, spiega la sinergia tra le due. C’è una diversità di impostazione.

Tommaso dice che la grazia è sempre efficace. Perché è sempre efficace? Non siamo noi a renderla efficace con il nostro consenso: è efficace perché è divina, perché la grazia è la partecipazione della vita divina. In Dio non c’è un limite, non c’è qualcosa che è imperfetto, sufficiente, e che poi diventa perfetto ed efficace grazie a noi. La prospettiva è ribaltata in san Tommaso, ma è la prospettiva della realtà. In sostanza, egli dice che siamo noi, non a rendere efficace la grazia, ma a sterilizzare, diciamo così, in noi la sua efficacia. Dunque, il problema non è come renderla efficace da sufficiente, e che deve esserci la grazia sufficiente perché sennò l’uomo sarebbe costretto: è esattamente il contrario. La grazia c’è ed è efficace, ma l’uomo – che può collaborare con essa, sempre supportato dalla grazia – può in qualche modo sterilizzare in sé l’effetto della grazia. Infatti san Tommaso, nella risposta alla seconda obiezione dell’art. 3, dice con grande ed estrema brevità e chiarezza: «La prima causa della privazione della grazia va cercata in noi, mentre la prima causa del suo conferimento va cercata in Dio» (I-II, q. 112, a. 3). Dio conferisce la grazia e la grazia è efficace. Non raggiunge in noi l’effetto? «La prima causa della privazione della grazia va cercata in noi». Vedete che la prospettiva è rovesciata, ma – ripeto – corrisponde alla realtà.

Dunque, il modo corretto di intendere questa distinzione – grazia sufficiente e grazia efficace – non è quello proposto da Molina, ma è quello in linea con questo pensiero di san Tommaso, che ha fondamento in re, nella realtà. Cioè, la grazia si dice sufficiente in rapporto a quelle capacità che essa dona: essa dà sempre tutte le capacità di essere elevati, di partecipare alla vita divina. Invece, si dice grazia efficace in rapporto a quanto essa effettivamente opera quando entra nella sinergia con l’uomo e quindi, in sostanza, quanto l’uomo sterilizza o meno la forza della grazia con la sua libertà, proprio perché la grazia sostiene la sua libertà, ma non la viola, non la violenta, non la forza.

Gli ultimi due articoli della quæstio 112 sono un po’ più brevi, ma affrontano due argomenti interessanti. Il primo, l’art. 4, si chiede se la grazia possa essere maggiore in uno e minore in un altro. Al di là della corrispondenza, cioè di questa tragica possibilità che l’uomo ha di sterilizzare l’azione, l’effetto della grazia, la grazia può essere maggiore in uno e minore in un altro? Ora, in sé, la grazia è grazia, è l’unione dell’uomo con Dio, la natura divina partecipata, la vita divina in noi: e in questo senso non c’è una grazia che dà la vita divina e una che non la dà (parliamo della grazia santificante). Ma in rapporto a noi c’è diversità. In che senso? Il punto è che questa diversità dipende certamente da noi, ma dipende anche dalla grazia stessa, dalla grazia attuale. La nostra collaborazione non è solo nostra, è anche e sempre in sinergia con la grazia attuale che Dio dà.

Quindi, se è vero che la preparazione alla grazia, la predisposizione alla grazia, la vita anche per incrementare la grazia, è opera nostra, ma è anche opera divina, allora capiamo che ci può essere una diversità della grazia, nel senso che abbiamo detto, che varia dall’uno all’altro. E san Tommaso dice: questa diversità ha la sua prima causa in Dio, «il quale dispensa i doni della sua grazia in diversa misura, affinché dalla varietà dei gradi risulti la bellezza e la perfezione della Chiesa, come anche creò i diversi gradi degli esseri per la perfezione dell’universo. Ecco perché l’Apostolo [qui cita san Paolo, Ef 4,7.12], dopo aver detto che “a ciascuno è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo”, finita l'enumerazione delle varie grazie, conclude: “... per il perfezionamento dei santi, al fine di edificare il corpo di Cristo”» (I-II, q. 112, a.4).

La diversità della grazia ha la sua causa in Dio. Lasciamo perdere la resistenza che possiamo fare, ma nella sua elargizione – «a ciascuno è data la grazia secondo la misura del dono di Cristo» – c’è una diversità, c’è una variazione. Noi siamo impastati dalle passioni e questa idea ci fa scattare subito l’invidia, un senso di ingiustizia: “ma come? Uno di più e uno di meno?”. Ma nell’ottica divina, che è quella che ha creato la variabilità dell’universo, questa diversità, come ci dice san Tommaso, è proprio per «la bellezza e la diversità della Chiesa». Che l’albero non sia un uccello non è un’ingiustizia da parte di Dio. L’albero ha la sua perfezione, l’uccello ha la sua: entrambi concorrono alla perfezione dell’universo.

Anche nel mondo angelico è così. C’è una misura diversa della grazia. I serafini non sono i troni. I troni non sono i cherubini. I cherubini non sono gli arcangeli. Eppure, ciascuno di loro, nella loro armonia, esprime la bellezza della creazione divina, dando gloria a Dio.

Allora, dovremmo uscire un po’ dal nostro buco, dalla nostra visione sempre un po’ ristretta, ripiegata su di noi e imparare proprio a godere di questa diversità delle grazie che Dio dispensa nella sua Chiesa. Pensiamo alla Chiesa trionfante e non solo: i confessori non sono le vergini; le vergini non sono i martiri; poi, certo, possono esserci vergini e martiri; i religiosi non sono gli uomini sposati; gli uomini sposati non sono i sacerdoti. C’è tutta una variazione della quale noi dobbiamo godere e ringraziare Dio che l’ha messa così. Dobbiamo ringraziare Dio della misura del dono che ha dato a noi e del dono che ha dato a Tizio, Caio e Sempronio nella perfezione del Corpo mistico, che rispecchia una gerarchia di perfezioni analogamente a come la vediamo nella creazione. Pensate se nella creazione esistessero solo i fiori: sono bellissimi i fiori, ma…

L’ultimo articolo, l’art. 5, molto interessante, si domanda se l’uomo possa sapere di essere in grazia. Domanda importante: io posso sapere se sono in grazia di Dio o no? San Tommaso fa alcune distinzioni. Ci può essere una rivelazione speciale che viene data alla persona e allora lì uno può sapere di essere in grazia o no, posta la credibilità di questa rivelazione personale. Dal punto di vista della nostra conoscenza, invece, questa conoscenza non è raggiungibile con certezza, cioè l’uomo non può sapere con certezza, da sé stesso, se è in grazia. Ma la risposta non termina qui, perché altrimenti qui si inseriscono alcuni “fenomeni” che dicono: “ma in fondo nessuno può sapere se è in grazia e dunque non c’è nessuna distinzione”. No. San Tommaso fa un’ulteriore considerazione e dice che noi possiamo conoscere in maniera indiziale, per indizi, per segni, se siamo in grazia. Questa conoscenza la possiamo avere, in modo ancora più imperfetto, anche di un’altra persona. Sottolineo “in modo ancora più imperfetto”, vedremo meglio il perché, parlando dei segni, anzi rinunciamoci un po’ a capire se un altro è in grazia o no… posto, chiaramente, che non vi siano dei comportamenti oggettivi contro la legge divina.

Ora, san Tommaso ci dà tre segni, tre indizi che aiutano l’uomo a capire se sta andando nella direzione giusta o no, se è in grazia o no. Indizi, perché alla fine rimane sempre quel che dice l’Apostolo, e che san Tommaso cita (1Cor 4,4), «anche se non sono colpevole di colpa alcuna, non per questo sono giustificato»; e poi cita il Salmo 18 che dice: «Le inavvertenze chi le discerne? Assolvimi dalle colpe che non vedo». In ultima analisi, la profondità del nostro intimo, la conosce solo Dio.

Però ci sono tre segni, tre indizi che san Tommaso dà. 1) In quanto «trova in Dio la sua gioia». 2) In quanto «disprezza le cose del mondo». 3) In quanto «non ha coscienza di alcun peccato mortale».

Partiamo dall’ultimo indizio. La coscienza del peccato mortale nasce, presuppone la conoscenza della legge divina, che mi dice che cos’è peccato e che cosa no. E dunque io avverto dentro di me, se ho coscienza o no, di aver peccato. Così come se ho fatto resistenza alla luce, oppure no. Perché magari io non so cos’è peccato, ma non ho mai voluto far nulla per saperlo, per andare in fondo e comprendere che cos’è bene e che cos’è male, che cosa Dio vuole e che cosa invece condanna.

Secondo: trovare in Dio la gioia, e disprezzare le cose del mondo. Che cosa vuol dire? Che cos’è la vita della grazia? La vita di Dio. E dunque si crea una sorta di connaturalità con Dio. E allora gustiamo, gioiamo, abbiamo desiderio e gioia di gustare le cose di Dio, trovare in Dio la nostra gioia. Quanto più la nostra gioia la troviamo in ciò che non è Dio o, peggio ancora, in ciò che è contro Dio, tanto più dobbiamo sospettare, ritenere che non siamo in grazia. Quanto più la nostra gioia la troviamo invece nella legge divina, nella sua verità, nel bene, nella volontà di Dio, tanto più possiamo dire di avere un indizio per ritenere che siamo in grazia. Che non vuol dire essere confermati.

L’altro aspetto è l’altro lato della medaglia, cioè il disprezzo delle cose del mondo, che è non il disprezzo della creazione divina, perché viene da Dio: la creazione divina, in quanto viene da Dio, ci dà gioia. Ma in quanto alle cose del mondo, l’attaccamento, in qualche modo, alle cose di quaggiù: agli onori, alle ricchezze, ai piaceri di questo mondo. Il disprezzo di questo è come istintivo: è come una persona che mangia un cibo avariato e istintivamente, se è sana, immediatamente lo rigetta: “non lo voglio, mi farà male, è disgustoso”. Se però siamo malati, mangiamo un cibo avariato, un cibo cattivo e diciamo “quanto è buono!”. Questo è un segno di non sanità, ma in questo caso non del corpo, ma dell’anima.

La prossima volta parleremo del grande tema della giustificazione del peccatore, che è l’effetto principale della grazia. 



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