La Francia si ritira dal Sahel. Una sconfitta e un'occasione
Macron ha annunciato il ritiro del contingente francese dal Sahel. Si apre un nuovo capitolo in cui i jihadisti si possono proclamare vincitori (come in Afghanistan). Intanto in Centrafrica arrivano i russi a colmare il vuoto. Ma il ritiro francese dall'Africa occidentale è anche un'occasione per l'Italia, per subentrare come potenza guardiana.
La decisione era attesa da quasi un anno e il 10 giugno il presidente francese, Emmanuel Macron, ha annunciato la fine dell’operazione Barkhane, il dispiegamento militare che vede oggi 5.100 militari transalpini schierati da 8 anni nel Sahel per contrastare l’insurrezione jihadista che colpisce soprattutto Niger, Malì, Ciad e Burkina Faso. «Concluse le consultazioni, cominceremo una trasformazione profonda della nostra presenza militare in Sahel» ha detto Macron, annunciando la «fine dell’operazione Barkhane» e l’avvio di una «alleanza internazionale che associ gli Stati della regione» già strutturati nel cosiddetto G5 Sahel.
Sempre più impopolare a causa degli elevati costi finanziari (oltre un miliardo di euro annuo) e dei 55 caduti tra le fila francesi, l’Operation Barkhane era già da tempo messa in discussione a Parigi dove la decisione di chiudere l’operazione è stata incoraggiata anche dalla morte del presidente del Ciad, Idriss Deby (ufficialmente nei combattimenti contro i ribelli, ma ancora tutta da chiarire) e l’ultimo colpo di Stato militare in Malì che ha visto la nuova giunta (vicina a Mosca) ad aprire a negoziati con le milizie jihadiste. Negoziati inaccettabili per Parigi che ha sospeso la cooperazione militare con Bamako: per riprenderla sarà necessario un “chiaro” impegno da parte delle autorità di transizione maliane a non dialogare con i jihadisti, ha aggiunto il presidente francese. «Non possiamo sopportare l’ambiguità, non possiamo condurre operazioni congiunte con governi che decidono di dialogare con gruppi che sparano sui nostri ragazzi» ha detto Macron. Sulla sofferta conclusione di Barkhane pesa però non poco anche il mancato coinvolgimento dei paesi Ue che alle reiterate richieste di aiuto francese per la guerra ai jihadisti nel Sahel hanno risposto, solo negli ultimi mesi, con poche truppe svedesi, ceche, italiane ed estoni (spesso con regole d’ingaggio limitate) e un pugno di elicotteri.
Macron ha dichiarato che la presenza militare sarà in futuro incentrata sulle «forze speciali strutturate intorno alla Task Force Takuba con centinaia di soldati francesi» ed europei chiamati ad operare nella regione dei ”tre confini” (Mali, Niger, Burkina Faso) per compiti anti terrorismo e di appoggio alle forze locali. Ma anche ammettendo che tale reparto resti concretamente attivo nel tempo, potrà offrire un supporto di qualità alle operazioni delle forze africane, ma non certo sostituire un robusto contingente francese.
La fine di Barkhane, al pari del ritiro definitivo della NATO dall’Afghanistan, costituisce un ulteriore successo per i movimenti jihadisti legati ad al-Qaeda e allo Stato Islamico e un fallimento non solo per la Francia, ma per tutta l’Europa. Basti pensare che a Ue, pur disponendo di oltre 1,5 milioni di militari professionisti, non è riuscita a metterne in campo neppure qualche migliaio per combattere al fianco dei francesi la minaccia jihadista, scoraggiando i governi locali ad aprire al dialogo con i jihadisti.
I guai della Francia in Africa non si fermano al Sahel. Il 9 giugno Parigi ha infatti reso noto di aver sospeso gli aiuti e la cooperazione militare per 10 milioni di euro nella Repubblica Centrafricana (RCA) a causa dell’incapacità del governo di Bangui di fermare “massicce campagne di disinformazione” contro la Francia che hanno preso di mira i suoi funzionari, ha affermato il ministero della Difesa di Parigi. Il riferimento è alla campagna stampa e web che cerca di screditare il ruolo della Francia nel Paese africano e attribuita alla Russia, il cui peso militare nella RCA (e in molti altri stato africani, incluso il Malì) è cresciuto enormemente negli ultimi anni grazie agli aiuti forniti al governo locale per combattere l’insorgenza islamista. L’intervento russo, con forniture di armi e oltre un migliaio tra contractors del Gruppo Wagner e consiglieri militari, ha minato la tradizionale influenza francese nella RCA il cui governo ha visto soddisfatte soprattutto da Mosca le sue esigenze militari nel tentativo di schiacciare l’insorgenza islamica.
In maggio il governo di Bangui ha inviato una notifica al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite in cui specifica la sua intenzione di accogliere 600 istruttori russi aggiuntivi – 200 con i militari, 200 con la gendarmeria nazionale e altri 200 con la polizia – che vanno ad aggiungersi ai 535 già ufficialmente presenti sul territorio nazionale, dove alcune fonti valutano la presenza russa compresa tra 800 e 2mila militari e contractors. Inoltre, i dissidi tra Parigi e Bangui sono stati influenzati anche dall’arresto, il 10 maggio, di un cittadino francese, Juan Remy Quignolot, con l’accusa di spionaggio, congiura e attentato alla sicurezza dello Stato. Il 14 giugno, dopo le dimissioni del primo ministro, Firmin Ngrebada, è stato nominato premier Henri Marie Dondra, ex ministro delle Finanze ed esponente di spicco del partito del presidente Faustin Archange Touadéra, saldamente alleato di Mosca che a inizio giugno è stato a San Pietroburgo per negoziare nuovi aiuti militari ed economici.
La perdita d’influenza della Francia in questa regione dell’Africa, grande come l’intera Europa, lascia ampi spazi di penetrazione economica e militare ai cinesi, ma soprattutto ai russi, graditi dai governi locali tra i quali molti vantano rapporti con Mosca che risalgono agli anni ’70 e ’80. Mentre gli USA sembrano confermare con Jo Biden il declinante interesse per l’Africa già emerso con Donald Trump, il “buco” lasciato dai francesi potrebbe venire colmato in teoria anche da altri Paesi europei, Italia in testa, che molti in Africa vedono come un partner efficace e poco invadente. Occorre tuttavia muoversi in fretta, offrendo pacchetti di intervento ai singoli Stati africani che includano aiuti e sviluppo economico, forniture militari, e invio di truppe e mezzi per aiutare e addestrare le forze locali.
L’Italia, del resto, da alcuni anni ha aumentato la presenza militare proprio nella fascia sub sahariana, con basi, piccoli contingenti militari e presenze navali schierati a titolo nazionale o all’interno di missioni europee in Niger, Malì, Gibuti, Somalia e nel Golfo di Guinea mentre accordi di cooperazione nel settore difesa e sicurezza sono stati sottoscritti anche con Mauritania e Burkina Faso. Il ridimensionamento francese costituisce quindi un’occasione da non perdere, per collocare l’Italia in pole position nel Sahel e in Africa Centro-occidentale, anche con l’obiettivo di sfruttare con aziende italiane le risorse di questi Paesi creando sviluppo e inserendo in robusti accordi bilaterali, anche intese per il rimpatrio dei migranti illegali giunti in Italia in questi anni e in buona parte provenienti da questi Paesi africani.
Benché non manchino quindi ragioni e interessi per spingere la presenza italiana nell’Africa sub-sahariana, nutrire ottimismo in tal senso potrebbe però risultare fuori luogo considerata la lentezza con cui Roma si muove oltremare, la “pochezza intrinseca” in termini di capacità e di leadership espresse dal nostro ministero degli Esteri e le diverse priorità che oggi richiedono l’attenzione e l’iniziativa del vertice governativo.