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ECONOMIA

La crisi dopo il Covid: il suicidio economico dell'Occidente

“Le idee hanno conseguenze”, recitava il titolo di un celebre libro del filosofo conservatore statunitense Richard M. Weaver. Quando il mondo si appresta a uscire dalle chiusure pandemiche, una nuova crisi è in procinto di colpire il nostro mondo industrializzato. Il fallimento del colosso cinese Evergrande può essere il primo segnale. La prossima crisi è sempre il frutto di scelte ideologiche: lockdown, integralismo ambientalista, sostegno artificiale al debito.

- UNA "CARTA UNICA" PER TUTTO di Stefano Magni

Economia 26_09_2021
Crisi

“Le idee hanno conseguenze”, recitava il titolo di un celebre libro del filosofo conservatore statunitense Richard M. Weaver.  Quella definizione spiegava molto bene, a metà del XX secolo, il tremendo potere che le ideologie hanno avuto nell'indirizzare la storia. Ma può essere considerata pienamente attuale ancora oggi, se si guarda a quanto nuove dottrine, molto simili per certi versi alle vecchie, influiscano sulle politiche dell'Occidente nel mondo globalizzato. Non solo: essa può servire anche a spiegare alcune derive dell'economia mondiale che da ultimo si stanno manifestando sempre più chiaramente.

Nelle ultime settimane, infatti, si rincorrono segni proccupanti di una nuova crisi che potrebbe essere in procinto di colpire le economie mondiali appena faticosamente (e non ancora del tutto) riemerse dalla profonda recessione vissuta nell'ultimo anno e mezzo a causa della pandemia da Covid - o, per dir meglio, delle reazioni politiche e sociali alla pandemia. Tali segni sono, in primo luogo, l'impennata del prezzo di molte materie prime, con particolare riguardo alle fonti energetiche, che sta già generando una crescita dell'inflazione, e l'esplosione della “bolla” immobiliare in Cina, iniziata con il fallimento del colosso Evergrande.

Ebbene questi fenomeni, e gli effetti a catena che essi potrebbero provocare – il più probabile è una “stagflazione” per certi versi analoga a quella degli anni Settanta del secolo scorso - non sono il mero frutto di un'evoluzione delle dinamiche di mercato, ma sono anche, anzi principalmente, il risultato di scelte politiche; a loro volta dettate, in molti tra i maggiori paesi industrializzati, da dogmi ideologici.

Il grande, improvviso assalto alle materie prime è infatti in primo luogo la prevedibile conseguenza dell'attenuarsi di una compressione senza precedenti dell'economia e dei consumi provocata, appunto, dalla decisione di molti governi di contrastare il contagio virale del Covid-19 confinando masse di miliardi di persone, chiudendo per mesi gran parte degli esercizi e delle attività, limitando drasticamente gli spostamenti, e quindi impedendo materialmente gran parte degli scambi e dei consumi abitualmente connessi alla vita sociale nei loro paesi. Decisioni che non erano assolutamente fisiologiche o scontate, tanto che alcuni grandi stati non le hanno adottate, o le hanno adottate in misura molto minore, ottenendo risultati non peggiori degli altri dal punto di vista sanitario, ma nolto migliori dal punto di vista della tenuta economica. Ora, allentando la pressione, come era prevedibile gran parte della popolazione mondiale ricomincia insieme a spostarsi, a vendere, a comprare, generando un “ingorgo” globale tra domanda e offerta, in prospettiva ulteriormente alimentato dall'incipiente ansia della penuria.

D'altra parte la dinamica dei consumi nell'economia globalizzata portava con sé fattori di crisi potenzialmente dirompenti già da molto tempo prima della pandemia. Dall'epoca della grande recessione del 2007/2008 le principali banche centrali hanno reagito alla crisi di liquidità generata dal crollo del sistema bancario, di fronte alle “sofferenze” dovute al collasso del debito privato, con l'uso massiccio e costante del quantitative easing: cioè con l'acquisto d'ufficio di titoli, finalizzato a “pompare” massa monetaria nel sistema, e consentire così di sostenere una domanda di beni in affanno.

Ma come si era arrivati a questo punto? Il problema fondamentale consiste nel fatto che, almeno a partire dagli anni Novanta, la politica economica degli Stati occidentali era stata prevalentemente quella di incoraggiare in ogni modo – attraverso la deregulation della finanza e del credito – un aumento di consumi connesso in primo luogo a beni non durevoli ma voluttuari, volatili, legati allo “stile di vita”. Una politica, a sua volta, figlia della grande trasformazione culturale iniziata in Occidente a partire dagli anni Sessanta e Settanta: la “cultura del narcisismo” (come la chiamò Christopher Lasch) dei baby boomers, l'emergere di una società fondata sull'edonismo soggettivo, su gratificazioni sempre più simboliche ed  esclusive, e sempre meno tenuta insieme da legami familiari e comunitari. Tale corsa al rialzo è stata via via sempre meno supportata da una crescita dell'economia reale, con effettiva produzione di ricchezza, e quindi in quanto tale è destinata prima o poi, come avvenne appunto nel 2008, a lasciare le pretese dei consumatori a secco di risorse.

Ora, l'ulteriore sostegno delle banche centrali, proseguito ininterrottamente per sostenere la ripresa post-pandemica, non fa altro che alimentare su molti beni una domanda che il mercato non è pronto a soddisfare e i consumatori non hanno le spalle abbastanza forti per sostenere nel medio-lungo periodo: moltiplicando prezzi, inflazione, tensioni sociali, e ricreando le condizioni per una grave recessione. A ciò si aggiunge, come una nemesi, la contrazione dell'economia cinese, al contrario già poco orientata all'espansione illimitata dei consumi interni, tenuti a freno dalle regole draconiane di un regime autoritario e dirigista: il ridimensionamento del suo settore immobiliare e finanziario trascina al ribasso anche le borse occidentali, accentuando la fragilità dellle imprese.

Infine, il colpo più duro, e potenzialmente più distruttivo, all'economia l'Occidente – e in particolare l'Ue - se lo sta assestando da solo con un'altra politica dettata da puri motivi ideologici e psicologici: l'idea dissennata della “transizione ecologica” da conseguire attraverso la “decarbonizzazione”, generata dal mito “gretista” altrettanto dissennato dell'”emergenza climatica” di origine antropica. La costrizione dall'alto a ridurre il consumo di fonti energetiche fossili, attraverso la loro crescente tassazione, genera naturalmente un rialzo imponente dei costi di produzione e distribuzione che si riversa su ogni anello della catena del mercato. Tanto più per quei Paesi che, come l'Italia, hanno pensato di poter sostenere tutte le esigenze della loro economia e della loro società esclusivamente attraverso le fonti rinnovabili senza ricorrere all'unica fonte potenzialmente pienamente sostitutiva e “sostenibile”, cioè quella dell'energia nucleare. E per quelli che – come quasi tutto il vecchio Continente – sono diventati troppo dipendenti dal gas russo, oggi sottoposto ad una domanda interna e asiatica fortemente crescente.

Insomma, il detto “Chi è causa del suo mal pianga se stesso” è sempre valido: ancor più per l'Occidente oggi preda di psicosi, persistenti aspirazioni catartiche e millenaristiche, spinte dirigistiche, conati disciplinatori. Tutte patologie che infliggono danni tanto rovinosi quanto evitabili al libero gioco vitale dei rapporti sociali ed economici, provocando una spirale di disgregazione, con la prospettiva di un sempre più marcato ripiegamento senile di una civiltà su se stessa.