La Cedu dà l’ok all’uccisione di Vincent Lambert
La Corte europea per i diritti dell’uomo ha rigettato il ricorso dei genitori di Vincent Lambert, dando così il via libera all’arresto di alimentazione e idratazione per il quarantaduenne francese. La Cedu si è rifiutata di esaminare quanto è successo negli ultimi quattro anni, richiamandosi a una sua sentenza, iniqua, del 2015. Rimane il ricorso al Comitato dell’Onu sui disabili.
Com’era da aspettarsi, la Corte europea per i diritti dell’uomo (Cedu) ha rigettato il ricorso dei genitori di Vincent Lambert e ha dunque confermato l’arresto dell’alimentazione e dell’idratazione per il quarantaduenne tetraplegico. È la seconda volta che la Corte respinge l’appello dei genitori, di un nipote e di una sorella di Vincent: era già accaduto il 5 giugno 2015. La Cedu ha ritenuto sufficiente riappellarsi a quella sentenza, senza neppure prendere in considerazione quanto accaduto negli ultimi quattro anni e senza neppure fare oggetto di approfondimento le modalità con cui è stata realizzata l’ultima perizia su Vincent Lambert, perizia che è stata criticata da numerosi medici esperti di situazioni vegetative e pauci-relazionali.
La sentenza della Corte appare ancor più incomprensibile allorché si consideri che sono stati proprio i periti nominati dal Tribunale amministrativo a dichiarare che «corrispondere ai bisogni fondamentali primari (alimentazione, idratazione) non rientra per Vincent Lambert nell’ambito di un accanimento terapeutico o di una irragionevole ostinazione». Accanimento e ostinazione erano le argomentazioni per motivare come non eutanasica, e dunque non contraria alla legge, la decisione di interrompere i sostegni vitali.
La Cedu ha espressamente dichiarato che non c’è violazione dell’articolo 2 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Ci sarebbe da ridere, se non fosse che di mezzo c’è la vita di un uomo. L’articolo summenzionato, al comma 1, dice infatti che “nessuno può essere intenzionalmente privato della vita, salvo che in esecuzione di una sentenza capitale”, in quegli Stati e a quelle condizioni in cui essa è prevista. Il comma 2 specifica poi che “la morte non si considera cagionata in violazione del presente articolo se è il risultato di un ricorso alla forza resosi assolutamente necessario”, come nel caso di difesa contro una violenza illegale, o per eseguire un arresto e impedire l’evasione, oppure ancora per reprimere una sommossa. Allora, come dobbiamo intendere la sentenza dello scorso 24 aprile del Consiglio di Stato francese, per conciliarla con questo articolo? Come una sentenza capitale contro un innocente di uno Stato, che oltretutto non approva la pena di morte? Oppure dobbiamo pensare che Vincent stia compiendo una fuga immobile? O che altro?
Questo richiamo della Corte europea alla precedente sentenza del 2015, rende necessario un passo indietro di quattro anni. La Cedu si doveva allora esprimere riguardo all’effettiva compatibilità o meno della decisione del 24 giugno 2014 del Consiglio di Stato - che aveva approvato la scelta del Centre Hospitalier Universitaire di Reims di interrompere l’alimentazione e l’idratazione - con l’articolo 2 della Convenzione.
La sentenza finale metteva in luce due aspetti. Il primo: che la decisione del Consiglio di Stato francese “non chiamava in causa gli obblighi negativi dello Stato ai sensi dell’art. 2”, cioè non entrava in conflitto con l’obbligo di uno Stato di non mettere a morte intenzionalmente qualcuno. Vediamo l’argomentazione: “La Corte osserva che la legge del 22 aprile 2005 non autorizza né l’eutanasia, né il suicidio assistito. Essa permette solamente al medico di interrompere un trattamento, seguendo una procedura regolamentata, se la sua prosecuzione manifesta un’ostinazione irragionevole”. Il riferimento è alla legge Leonetti (che nel frattempo è stata sostituita dalla legge Claeys-Leonetti), che si riferiva però a dei trattamenti, e non a dei semplici sostegni vitali. Dunque - sosteneva la Cedu - lo Stato francese non sta violando i suoi obblighi negativi, perché nella sua legge c’è scritto che l’eutanasia è proibita. Un bel modo di verificare il rispetto della vita delle persone.
Il secondo: la Corte si pronuncia relativamente agli obblighi positivi dello Stato a provvedere quanto necessario per il mantenimento della vita dei propri cittadini. La Corte non ha fatto altro che ripetere che il Consiglio di Stato francese ha agito all’interno dei suoi “margini di discrezionalità”, che la procedura seguita è stata “lunga e meticolosa” e che questa procedura “ha rispettato le esigenze derivanti dall’articolo 2 della Convenzione”. Inoltre ha riconosciuto che in assenza di direttive anticipate di trattamento è possibile indagare tali volontà in altro modo, cosa che è stata fatta attraverso le dichiarazioni della moglie di Vincent, Rachel. Infine, la Corte ha dichiarato che spetta in primo luogo alle autorità interne a uno Stato “verificare la conformità della decisione di arrestare i trattamenti al diritto interno e alla Convenzione, così come di stabilire la volontà del paziente, in conformità alla legge nazionale”.
Ci si domanda, a questo punto, che ci stia a fare la Corte europea dei diritti umani. Nessuna difesa dei diritti basilari della persona, ma solo verifiche procedurali che uno Stato abbia agito in conformità alle leggi che si è dato, con ampi margini di discrezionalità. Si fa largo il sospetto che questi organismi altro non siano che l’ultimo grado di approvazione dell’iniquità o l’estremo tentativo di frenare quanto di buono è stato deciso dai singoli Stati.
Non tutti i giudici però avevano dato parere favorevole all’arresto dei sostegni vitali di Vincent. Cinque di loro, Hajiyev, Šikuta, Tsotsoria, de Gaetano e Griţco, avevano espresso il loro “forte dissenso”, perché il caso che si trovava di fronte alla Corte è un caso “di eutanasia, anche se sotto un diverso nome”. Questi giudici proseguivano spiegando che sebbene non sia opportuno usare “aggettivi o avverbi forti nei documenti giuridici, nel caso attuale è certamente del tutto contraddittorio” continuare a ribadire che “la legge francese proibisce l’eutanasia, e che pertanto l’eutanasia in questo caso non entra in gioco”.
I cinque giudici dissenzienti si sono accorti del giochetto e, se si sono sentiti in dovere di mettere nero su bianco una tale considerazione, significa che allora la Corte europea dei diritti dell’uomo è solo un paravento, dal momento che dà per scontato ciò che invece dovrebbe precisamente verificare: che la sentenza del Consiglio di Stato francese non possa essere considerata un atto eutanasico per il semplice fatto che in Francia l’eutanasia è formalmente proibita non è una grande garanzia dei diritti umani. A conti fatti, la sentenza del Tribunale amministrativo di Châlons-en-Champagne, quella della Corte di Stato e infine il pronunciamento della Cedu, al di là di tante sottigliezze, altro non sono - per usare le parole di questi cinque giudici - che “la privazione di due basilari sostegni vitali, cioè il cibo e l’acqua” a una persona disabile, il che costituisce un allarmante “passo indietro nella protezione che la Convenzione e la Corte hanno fino ad ora offerto alle persone vulnerabili”.
I genitori pongono ora le loro umane speranze nel ricorso al Comitato dell’Onu sui diritti delle persone con disabilità (Crpd): “Se non possiamo far altro che deplorare questa decisione della Cedu che condanna a morte Vincent Lambert per la quinta volta, è dal Crpd che noi oggi attendiamo principalmente che i diritti di Vincent Lambert siano finalmente difesi”.