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Il primo "peccato" di Rupnik è la sua estetica

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Gli altissimi significati teologici attribuiti all'opera dell'ex gesuita si scontrano con un linguaggio elementare, disincarnato e deformato che ha diffuso nell'arte cristiana una nuova strisciante iconoclastia.

Ecclesia 24_08_2024
UFFICIO IMAGOECONOMICA

Di recente si è spesso parlato, anche su queste colonne, delle vicende giudiziarie che hanno coinvolto l'ex gesuita  Marko Ivan Rupnik. Tale questione non sarà l'argomento  di questo articolo. Porrò invece l'attenzione sulle criticità intrinseche alla sua opera artistica. Analizzandone il linguaggio mi ha sempre colpito l'estrema semplificazione formale che sfocia in esiti prossimi al caricaturale e all'infantile.

Le fonti a cui egli, per sua stessa ammissione, attinge sono due: il linguaggio astratto mutuato dallo studio giovanile della lezione di Vasilij Vasil'evič Kandinskij, il padre della moderna arte astratta, nonchè membro della società Teosofica (leggi: occultista) di madame Helena Blavatsky, e la tradizione figurativa dei primi secoli dell'arte cristiana, con una predilezione per l'iconografia orientale. Dalla prima radice derivano l'uso del colore puro e violento (Rupnik nella sua prima produzione esordì con un linguaggio astratto caratterizzato da un'accesa cromia), mentre dalla seconda discende la supposta legittimazione della drastica schematizzazione delle forme. Tali componenti stilistiche testimoniano la sua conclamata diffidenza verso le radici naturalistiche della tradizione artistica occidentale, sentita come  eccessivamente razionale e limitante. Sono numerosi infatti gli episodi in cui egli pubblicamente ha delegittimato pittori quali Raffaello, Michelangelo, Tiziano, ecc., rei a suo dire di avere diffuso un'arte che ha allontanato i credenti dalla vera essenza del mondo spirituale.

Il ritorno alla tradizione bizantina, o pseudo tale, è stato, nel periodo post-conciliare, un fenomeno di reazione all'irrompere dell'arte rivoluzionaria-contemporanea negli spazi sacri col suo linguaggio incomprensibile e lontano dalla sensibilità liturgica popolare. Ma ben presto si è prodotta una nuova forma di astrazione avulsa dalla nostra cultura figurativa, basata sull'incarnazione.
La conseguenza principale di questa svolta si concretizza nel rinnegamento delle grandi conquiste dell'arte occidentale  da Giotto in avanti, e, più profondamente, nel prendere le distanze dalla  realtà nella sua incredibile e affascinante ricchezza visiva. L'intento di queste osservazioni non è quello di sminuire la grande tradizione bizantina (si pensi ai grandiosi Cristi Pantocratori di Cefalù e Monreale), bensì la critica del nuovo astrattismo iconoclasta che si traveste da tradizione. 
La moderna corrente neo-bizantina va infatti a semplificare volontariamente e ancor più radicalmente i modelli antichi, già fortemente schematizzati, sfociando in  esiti dilettantistici e approssimativi. Questa ricerca di estrema essenzializzazione delle forme pare quasi sottendere che il Padre Creatore si sia sbagliato ad esemplare, attraverso la persona del Cristo, tutta la realtà con le forme che gli sono proprie.

Ecco dunque comparire nelle opere di Rupnik l'innaturale sproporzione tra volto e corpo, i visi dagli enormi occhi neri (che fanno apparire i personaggi come sinistri gufi notturni dallo sguardo di tenebra), l'assenza del chiaroscuro, l'iper-semplificazione dei tratti somatici, esemplati su di un unico prototipo, le mani a "forchetta”: tutti elementi che danno l'idea di un grande fumetto per bambini, velocemente abbozzato, decontestualizzato e trapiantato forzatamente nei luoghi più sacri ed importanti della cristianità (da Lourdes, a Fatima, alla Città del Vaticano, a Madrid, ecc.).
Ciò che stupisce è l'apprezzamento quasi unanime che la committenza ecclesiastica ha riservato all'opera di Rupnik, facendo intendere che ormai l'arte cristiana, per comunicare all'uomo contemporaneo, debba inevitabilmente attingere ai territori dell'irrazionale, dell'infantile, del tribale, dell'astratto, dell'informale, insomma: a tutto ciò che si allontana dalla razionalità e dalla realtà. 

L'obiezione che di solito si porta a queste  osservazioni è che un simile linguaggio è capace di mediare altissimi concetti teologici. Si dimentica però che il primo significato nella comunicazione è il significante. Ciò vuol dire che lo stile, in arte, ha un potere comunicativo molto più alto dei contenuti che attraverso di esso si vogliono rappresentare. Un linguaggio elementare, disincarnato, deformato prevale, annullando tutti gli altissimi significati teologici che stuoli di esperti esegeti siano eventualmente capaci di decifrare nei mosaici di Rupnik. Purtroppo il potere persuasivo di queste elucubrazioni ha una presa sul pubblico, specialmente ecclesiastico, maggiore dell'evidente povertà stilistica delle opere del mosaicista sloveno. L'enorme produzione di Marko Ivan Rupnik è resa possibile proprio da questo stile estremamente semplificato e ripetitivo e da una enorme massa di collaboratori: una facile scorciatoia.

Tutto quello che abbiamo finora analizzato riguardo all'opera dell'ex gesuita mira ad evidenziare come il più grande peccato di Rupnik, prima ancora delle accuse che gli vengono contestate nei confronti delle proprie collaboratrici, è la povertà visiva e contenutistica dei suoi mosaici: sintomo di una nuova strisciante iconoclastia.



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