Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Santa Francesca Saverio Cabrini a cura di Ermes Dovico
MESSA E COVID

Il precetto festivo: diritto di Dio che nessuno può togliere

I vescovi stanno applicando in modo diverso la breve indicazione della Cei relativa alla dispensa dal precetto per motivi di età e salute. Va detto che le ragioni per non andare a Messa devono essere gravi. Il terzo comandamento è un dono di Dio alle anime e non può essere sospeso da nessuno, come ben sapevano i Pastori alle prese con epidemie del passato. Alla sua base c’è il diritto di Dio di essere adorato e radunare il Suo popolo per effondere tutte le grazie della Redenzione.

Ecclesia 14_06_2020

«Si ricorda la dispensa dal precetto festivo per motivi di età e di salute». È stata questa la breve e asciutta indicazione della Conferenza Episcopale Italiana relativa al precetto festivo, per la ripresa delle celebrazioni pubbliche, a partire dal 18 maggio scorso.

Un’indicazione che è stata variamente declinata dai singoli vescovi nelle proprie diocesi. A Milano, per esempio, si è ritenuto di assicurare le celebrazioni in streaming «per quanti non possano o non ritengano prudente partecipare alla Messa», lasciando alla libera interpretazione di ciascuno di allargare o restringere le maglie di tale “prudenza”. Nella diocesi di Albano Laziale, il vescovo Marcello Semeraro ha pensato addirittura di subordinare la ripresa delle Messe cum populo alla presenza dei volontari, quasi che i fedeli siano tutti degli ebeti incapaci di usare il buon senso; prevedendo, com’è ovvio, che una tale disposizione avrebbe diminuito il numero delle Messe disponibili, Semeraro ha dispensato dal precetto «quanti in una determinata Domenica vengono a trovarsi nella pratica impossibilità di partecipare alla celebrazione eucaristica».

Il patriarca di Venezia, Francesco Moraglia, invece, ha seguito un’interpretazione decisamente più fedele al senso profondo del precetto domenicale: «I fedeli, per gravi motivi di età o di salute, sono dispensati dall’adempimento del precetto festivo. I sacerdoti indichino loro modi adeguati di vivere comunque il Giorno del Signore, anche ma non solo valorizzando la teletrasmissione e diffusione “in streaming” delle celebrazioni, invitandoli a partecipare, se le loro condizioni lo consentono, almeno alla Messa feriale, e di tornare appena possibile a quella festiva».

Dunque, i motivi per non andare alla Messa devono essere gravi e la dispensa dall’obbligo festivo non è una dispensa dalla santificazione della domenica, né dall’importanza di partecipare alla Messa feriale non appena possibile.

Il terzo comandamento, come tutti gli altri, è innanzitutto un dono di Dio. Bisogna che ci mettiamo nella testa che i comandamenti hanno a che fare con il bene della nostra anima, con il fine della nostra vita, che sta tutto nella glorificazione e adorazione di Dio. Dio, strettamente parlando, non ha bisogno della nostra osservanza dei comandamenti; siamo noi che ne abbiamo bisogno, e Dio, nella sua grande bontà, ce li comanda, perché non abbiamo a perderci. Per questa ragione, dai comandamenti, in quanto leggi divine, nessuno può dispensare, nemmeno il Papa.

Il terzo comandamento, dunque, non può essere sospeso per alcuna ragione. La domenica, il giorno del Signore, dev’essere santificato. Il contenuto irrinunciabile è, come spiega san Tommaso d’Aquino nel contesto della virtù di giustizia, il seguente: «Viene comandato il culto esterno a Dio». Questo culto esterno, che è corollario e sostegno di quello interno, è stato tradotto, fin dai primissimi tempi della Chiesa, nella partecipazione all’Eucaristia: «Essendo l’Eucaristia il vero cuore della domenica, si comprende perché, fin dai primi secoli, i Pastori non abbiano cessato di ricordare ai loro fedeli la necessità di partecipare all’assemblea liturgica. “Lasciate tutto nel giorno del Signore - dichiara per esempio il trattato del III secolo intitolato Didascalia degli Apostoli - e correte con diligenza alla vostra assemblea, perché è la vostra lode verso Dio. Altrimenti, quale scusa avranno presso Dio quelli che non si riuniscono nel giorno del Signore per ascoltare la parola di vita e nutrirsi dell’alimento divino che rimane eterno?”» (Dies Domini, 46).

Questo istinto “naturale” della Chiesa verso la partecipazione alla Messa domenicale, si è poi concretizzato in disposizioni canoniche, fino a divenire legge universale. Giovanni Paolo II spiegava che «una tale legge è stata normalmente intesa come implicante un obbligo grave [...] e ben se ne comprende il motivo, se si considera la rilevanza che la domenica ha per la vita cristiana» (Dies Domini, 47). Il Papa rinviava poi al n. 2181 del Catechismo: «Coloro che deliberatamente non ottemperano a questo obbligo commettono un peccato grave».

Questo, in modo molto stringato, il tenore dell’insegnamento della Chiesa sull’obbligo della partecipazione alla Messa domenicale, un obbligo che può non essere ottemperato solo per reale impossibilità o per ragioni gravi. Perché si tratta di un obbligo – è bene ribadirlo – che corrisponde al culto che dobbiamo a Dio e all’esigenza profonda della vita dell’anima. Per questa ragione, che ha a che fare con la natura divina e la natura umana, «dal momento che per i fedeli partecipare alla Messa è un obbligo, a meno che non abbiano un impedimento grave, ai Pastori s’impone il corrispettivo dovere di offrire a tutti l’effettiva possibilità di soddisfare al precetto» (Dies Domini, 49).

Pastori e fedeli si trovano sotto lo stesso obbligo che nasce dal diritto di Dio di essere adorato, di radunare il suo popolo per effondere su di esso tutte le grazie della Redenzione e santificazione, dalla sua sete di unirsi alle anime nella Comunione sacramentale. Né i fedeli, né i pastori possono porre un ostacolo a questo diritto di Dio.

Ora, in tempo di pestilenza, i Pastori ben sapevano che non era possibile “cavarsela” semplicemente dispensando: Dio vuole offrirsi per le anime, comunicarsi ad esse nella modalità sacramentale e le anime, a loro volta, ne hanno bisogno, più di quanto abbiano necessità del cibo materiale. Per questo, la “fantasia” dei Pastori veniva ben nutrita dalla carità, dallo zelo, dal rispetto di Dio e fruttificava nelle Messe ad ogni angolo delle città, o nelle pinze eucaristiche per comunicare i fedeli, soprattutto i morenti, senza rischiare di profanare l’Eucaristia.

Oggi lo scenario è ben più triste. Il comandamento fondamentale sembra essere diventato quello dello star bene, i diritti da rispettare sono quelli del comitato tecnico-scientifico e l’obbligo morale quello di non contagiarsi e non contagiare. E in nome di questa “sacra” triade, si preferisce negare ai fedeli la Comunione, se non accettano di riceverla in mano, si dispensano i fedeli dalla Messa per una non meglio precisata prudenza, si subordina il sacrificio di Cristo alla presenza dei volontari-guardiani...

Ma, si potrebbe obiettare, l’importante è pregare col cuore: è questo il culto gradito a Dio. Lasciamo che a rispondere sia san Giovanni Crisostomo, in un testo che è stato a ragione inserito nel Catechismo (§ 2179): «Tu non puoi pregare in casa come in chiesa, dove c’è il popolo di Dio raccolto, dove il grido è elevato a Dio con un cuore solo. [...] Là c’è qualcosa di più, l’unisono degli spiriti, l’accordo delle anime, il legame della carità, le preghiere dei sacerdoti».

La Messa è entrare in questa armonia della Chiesa celeste e terrestre, è permettere al tempo di aprirsi all’eternità, è fare in modo che la Terra rompa la sua chiusa sfericità, il suo ripiegarsi su se stessa, per entrare nell’Infinità di Dio. Ecco perché alla Messa non si può, non si deve rinunciare.