Il mio nome nel vento, un romanzo ricco di scavi nella memoria
Le vicende della famiglia Moncalvi, che parte da Genova, si ferma a Barcellona e ritorna a Genova in mezzo ai drammi del Novecento. Ma la malinconia non diviene mai disperazione. Ecco Il mio nome nel vento, di Alessandro Rivali.
Ci sono libri che assomigliano alle città che raccontano. Così è Il mio nome nel vento. Storia della famiglia Moncalvi di Alessandro Rivali (Mondadori 2023), che parte da Genova, si ferma a Barcellona e ritorna a Genova. Come la città, divisa tra la luce del mare e le ombre colorate dei caruggi, delle piazzette, degli slarghi improvvisi, compone un labirinto, così fa il racconto di Rivali ricco di soste, scavi nella memoria e ritorni su luoghi, oggetti e circostanze. Il racconto della memoria avanza, si ferma e torna indietro perché la realtà è troppo ricca e va spezzata in mille immagini poetiche, va ripensata per restituirne la complessità vibrante. Un prologo evoca la morte: «In famiglia i lutti sono sempre arrivati dopo gli incubi. A due o tre giorni di distanza. Ognuno aveva il suo modo di vedere arrivare i morti: la mamma se sognava una civetta sul platano, papà se sognava di perdere i denti, io se vedevo i serpenti». Sognare era un «tratto distintivo di noi Moncalvi».
All’inizio, la voce narrante rievoca la morte della sorella Giulia e nel pensare lei morta ricorda, come barbagli di immagini, la sua vita intera. Qui si apre il racconto che sale all’epica. Nello sbocco della memoria inizia la storia della famiglia Moncalvi che è una storia vera dietro al cui nome si cela la storia della famiglia dell’autore.
La vicenda narrata da Augusto detto Gutin inizia con un capostipite che, giunto a Barcellona con la sua amata Ada dagli occhi che incantano, impianta una fiorente bottega alimentare e dà origine a una bella famiglia. Conosciamo il padre e la madre, Attilio e Giustina, i fratelli Carlo e Giulia la sognatrice, malinconica, spesso taciturna. Giustina, la mite, la buona, che «ricordava le raccomandazioni del parroco: sopportare le persone moleste e allontanare la mormorazione. E riportava l’esempio di san Filippo Neri, che in confessione aveva dato una penitenza strana a una donna con una lingua come una tagliola»: spennare una gallina lungo una strada e poi tornare indietro a raccogliere le piume perché quello era «il destino delle parole cattive. Volavano per la strada ed era impossibile richiamarle indietro».
A Barcellona la famiglia prospera con un negozio che vende specialità italiane. Attraversa placidamente molti anni sino alla metà degli anni Trenta, quando Barcellona diventa un teatro di esperimenti radicali e in seguito, con Madrid e Valencia, uno degli epicentri della guerra civile. La Barcellona irrequieta erutta violenza, uccisioni, eccidi, torture: un giorno i miliziani anarco-sindacalisti si presentano alla porta dei Moncalvi, colpevoli di essere di origine italiana e perciò sospettati di essere “fascisti”. Sono avvisi di pericolo estremo; in quei giorni la gente veniva uccisa con estrema facilità: uno sguardo, una frase, un’amicizia bastano a condannare.
Il padre deve scegliere se restare o emigrare. Emigrare dove? Forse a Genova, da cui la famiglia veniva. Molti aspetti legano le due città così simili: il mare, il cibo, i venti, la gente, le chiese: Santa Maria del Pi di Barcellona ricorda San Lorenzo di Genova. Entrambe le città sono protette da San Giorgio. E poi «per papà i catalani erano come i genovesi: decisi, testardi, senza fronzoli», racconta Gutin, ed entrambi i popoli avevano una «pazzia buona». I Moncalvi sono costretti a lasciare tutto, negozio, casa e ricordi.
All’arrivo a Genova trascorrono alcuni giorni dallo zio Lodovico che «vive in una casa a sua immagine e somiglianza»; è la casa di uno scapolo dannunziano ricca di lampadari di Murano, «soldatini napoleonici a cavallo» e «velieri in bottiglia» e ancora: «zanne d’avorio, Buddha in miniatura, persino un caimano impagliato». Lui racconta ai bambini Genova, le strade, le chiese di San Donato e San Lorenzo, legge loro brani dell’amato Salgari che aveva conosciuto di persona al caffè quando lo scrittore era «vestito sempre con il gilè bianco e la paglietta in testa e fumava come un turco».
La famiglia, dopo la sosta a Genova, occupa la villa di Rovereto di Gavi, un edificio con una torre, circondato da giardino e frutteti, guardato dal custode Mario, dove la storia, acquietandosi, continua con la scoperta dei boschi, della neve, della scuola. E mentre la vita rifioriva, la disgrazia colpiva alle spalle quando arrivavano notizie di amici e parenti che scomparivano, e l’annuncio era portato da un telegramma, una telefonata di notte, la lettera di un parente sconosciuto. E «papà diceva che erano fortunati i malati che si spegnevano lentamente, e ricordava una preghiera per scacciare la morte improvvisa: a subitanea morte, libera nos, Domine». Quando muore la mamma sulla famiglia scende «un sudario nero». Non molto tempo dopo muore anche il padre, il 18 marzo 1943, «la vigilia di San Giuseppe». Nulla sarà più come prima.
Il racconto scorre trascinando immagini, persone, nomi, colori nella corrente del tempo, cambiando tono dall’epico al tragico alla quieta elegia. Ma è appunto questo il valore di queste pagine: che ogni cosa, un gesto, un momento di gioco, un racconto, una citazione, lo scorcio di una chiesetta vista durante una passeggiata, un rèfolo di vento, una parola della mamma, tutto è prezioso, scava nella memoria e suscita, come scintille, i mille misteri quotidiani, la poesia delle cose, dei gesti o del cibo. Il libro è pervaso della religiosità quieta e profonda dei Moncalvi che non ha bisogno di proclami o dichiarazioni ma si mostra nello svolgersi della vita. La malinconia non diviene mai disperazione, la violenza della storia – evocata con immagini dure che si scolpiscono nei nostri pensieri – si scioglie nel racconto e nei suoi colori. Perché la vita è, appunto, troppo varia.
Un libro potente – per stile e verità, pur «liberamente ispirato» come ci ricorda l’autore – che non si potrà dimenticare.