Il "manifesto" del gen. Vannacci spopola, un segnale per la destra
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L'enorme successo per il libro Il mondo al contrario - che non ha nulla di scandaloso, ma è lo sfogo di un cittadino qualunque contro l'irrazionalità del "politicamente corretto" - pone delle domande a un mondo culturale e politico conservatore e liberale prono o incapace di opporsi alla narrazione ideologica progressista.
Il libro del generale Roberto Vannacci Il mondo al contrario, balzato improvvisamente alla notorietà per le accuse di omofobia e razzismo sollevate dal quotidiano Repubblica e per la destituzione dell'autore dal suo incarico decisa dal ministro Crosetto, ha polarizzato radicalmente l'opinione pubblica tra demonizzatori e difensori. Ed è balzato istantaneamente in cima alle classifiche di vendita, venendo brandito come una bandiera da una ampia fascia di quell'opinione pubblica proprio per la speculare distanza dalla "narrazione" dominante che in esso moltissimi lettori hanno percepito.
Ciò obbliga a qualche riflessione sullo stato attuale della dialettica politico-culturale nel nostro paese, e della cultura conservatrice, di destra, liberale, “non progressista” più in particolare.
In realtà Il mondo al contrario, letto nella sua interezza al di là degli stralci e delle estrapolazioni circolate nei giorni scorsi, non appare come uno scritto particolarmente scandaloso, ma nemmeno originale o rivoluzionario, né come il frutto di un pensiero articolato. Esso è piuttosto classificabile come lo sfogo di un cittadino comune, per quanto istruito e di provata esperienza professionale nel suo delicato settore, che ha deciso di riunire in un cahier de doleances tutte le sue critiche all'ideologia da lui considerata imposta a senso unico dall'establishment intellettuale, da gran parte della classe politica e dai media mainstream. Uno sfogo tenuto insieme dalla considerazione – evidenziata dall'autore fin dal titolo e dalla premessa – che la sensazione da lui condivisa con molte persone sia quella di vivere in un ambiente socio-politico in cui regna una logica totalmente irrazionale, contraria alla razionalità e al senso comune.
Il libro si presenta quindi come un compendio asistematico, affidato al puro filo conduttore della riflessione personale e autobiografica, di tutte le critiche, le insoddisfazioni, le frustrazioni dell'”uomo della strada” rispetto a un “pensiero unico” onnipervasivo, egemonizzato da un “progressismo” a sfondo moralistico e pedagogico, nelle sue più varie forme: dall'ideologia Lgbtq all'ambientalismo apocalittico, dal multiculturalismo immigrazionista a oltranza al “perdonismo” verso la delinquenza, con la corrispondente indifferenza e insofferenza per le preoccupazioni dei cittadini per la propria sicurezza. Un compendio in cui le argomentazioni non sono rigorosamente connesse tra loro in un disegno strutturato, ma si succedono in un ordine piuttosto casuale: talvolta come affermazioni di semplice buon senso, talvolta come ovvietà, in qualche caso come banalità da “bar dello sport” piuttosto imbarazzanti (come, per citarne una su tutte, la cervellotica distinzione tra “normalità” e “naturalità” a proposito dell'omosessualità, che pare fatta apposta per alimentare equivoci).
E tuttavia quella che dal punto di vista intellettuale e politico è la debolezza e fragilità del pamphlet di Vannacci è anche, per altro verso, alla base della sua efficacia, della sua capacità di far presa su un bacino di lettori molto ampio e trasversale. Proprio per il suo approcciare le questioni trattate senza filtri disciplinari, come un quidem de populo, il volume appare come il “manifesto” di un diffusissimo sentimento conservatore “qualunquista” e “populista” (dove questi aggettivi sono usati in senso puramente descrittivo e non valutativo) contro quella che Marcello Veneziani, con argomentazioni di ben maggiore spessore, aveva definito “la cappa”. E viene dunque accolto da una consistente parte della società civile italiana - che non si sente rappresentata né compresa - con un moto liberatorio, a cui si accompagna l'irritazione crescente per il fatto che la destra di governo sembra aver immediatamente “scaricato” l'autore, marcando la propria distanza da lui e abbandonandolo alla lapidazione riservata dal sistema mediatico-politico progressista a tutti coloro che osano mettere in discussione i “totem” e i “tabù” da esso continuamente, monoliticamente somministrati.
Ne derivano alcune domande di fondo alle quali tutto il mondo politico e culturale della destra italiana, nelle sue varie componenti, dovrebbe cercare al più presto di offrire risposte convincenti, perché da esse dipenderà la sua capacità o meno di consolidare la propria presenza e il proprio consenso nel paese. Perché la destra italiana appare così succube della narrazione “politicalcorrettista” e woke, incapace di contrapporre ad essa una lettura della realtà chiaramente alternativa? Perché, al di là dell'ovvia (ma a quanto pare non condivisa universalmente nemmeno in quell'area politica) necessità di difendere ad ogni costo la libertà di espressione dalla censura, essa non sa rispondere “no” ai deliri ideologici del relativismo multiculturalista, della dottrina gender, del millenarismo psico-ambientalista, argomentando su basi storiografiche, filosofiche, economiche e giuridiche (delle quali le sue tradizioni culturali non sarebbero assolutamente prive) ma, salvo lodevoli ma minoritarie eccezioni, al massimo balbetta, o tende a rispondere “sì, ma”? Perché non riesce a sposare e a esporre chiaramente una visione del mondo ispirata all'umanesimo cristiano, alla libertà individuale, alla limitazione rigorosa del potere, contrapponendola con serenità ma con fermezza al contraddittorio relativismo ipersoggettivista ed emotivo delle élites progressiste?
Si tratta di un problema non esclusivo della dialettica politico-culturale italiana ma di tutto l'Occidente, in quanto l'egemonia para-dittatoriale politically correct/woke lega oggi ovunque tra loro poteri politici, economici, finanziari, istituzionali, accademici estremamente pervasivi e invasivi. E però nel nostro paese esso appare, almeno al confronto con l'area anglosassone e con quella dell'Europa centro-orientale, particolarmente bruciante. In quei paesi il pensiero conservatore, cristiano, del liberalismo classico e libertarian possiede, se non altro, sedi consolidate e autorevoli di elaborazione teorica e di ricerca, che possono sostenere il confronto con il progressismo mainstream senza troppi timori reverenziali.
In Italia, nonostante qualche primo passo importante in tal senso, ci troviamo ancora di fronte al paradosso per cui il sentimento diffuso di insofferenza verso il “pensiero unico”, in mancanza di riferimenti più robusti e di una classe politica giudicata credibile, va a scegliersi come paladino un ideologo fragile e improvvisato, incanalandosi in una sorta di “eterno ritorno” del populismo emotivo, con tutti i pesanti rischi che ne possono conseguire per la sua credibilità e per la sua capacità di incidere durevolmente sulla realtà.
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