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"Il dolore non redime": la PAV anestetizza la Redenzione

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Nel già controverso volume sul fine vita si capovolge il senso della Salvifici doloris negando che la sofferenza possa avere valore redentivo. Se così fosse, la Passione di Cristo sarebbe un incidente di percorso.

Ecclesia 16_08_2024 English
IMAGOECONOMICA - VINCENZO LIVIERI

Una citazione della Salvifici doloris di San Giovanni Paolo II, poi il netto travisamento del senso di quelle parole, per arrivare a negare che il dolore possa essere strumento di redenzione. Così il già ampiamente problematico Piccolo lessico del fine-vita (vedi qui), alla voce “Dolore, sofferenza, terapia del dolore” (pp. 37-40), sceglie di spiegare che la strada scelta dal Figlio di Dio per la nostra salvezza è in realtà espressione di una errata «prospettiva dolorista che si può riscontrare in una certa tradizione cristiana» e che «è stata superata in molti documenti della Chiesa cattolica» (p. 39). Va da sé che l'autore non si premuri di dare nemmeno un accenno di questi «molti documenti».

Andiamo con ordine. Il testo della Salvifici doloris citato è il seguente: «la rivelazione da parte di Cristo del senso salvifico della sofferenza non si identifica in alcun modo con un atteggiamento di passività. È tutto il contrario. Il Vangelo è la negazione della passività di fronte alla sofferenza. Cristo stesso in questo campo è soprattutto attivo (…) Egli passa "beneficando" (At 10,38), ed il bene delle sue opere ha assunto rilievo soprattutto di fronte all'umana sofferenza» (n. 30). Un testo che dice semplicemente una cosa: nei confronti della sofferenza altrui non si può semplicemente allargare le braccia ed abbandonare la persona al suo dolore, ma si deve, per quanto possibile, operare per la sua guarigione, o almeno per alleviare il peso della sofferenza.

Invece, incredibilmente, il Piccolo lessico offre del testo un'interpretazione che, per rispetto, ci limitiamo a definire “singolare”: «Viene così smentita una visione che celebra il dolore come strumento di redenzione, che si è talvolta erroneamente sostenuta, anche nella tradizione cristiana. Sono invece benvenuti gli strumenti sempre più efficaci che la medicina ha sviluppato per la terapia del dolore» (p. 38). Queste considerazioni costituiscono un duplice non sequitur: prima di tutto, perché, come accennato, le parole del Papa non c'entrano nulla con la negazione del valore redentivo della sofferenza, che al contrario è affermata – come vedremo – in tutta l'enciclica. Inoltre, è evidente anche la non consequenzialità interna al paragrafo: al dolore inteso come strumento di redenzione viene contrapposta la terapia del dolore; contrapposizione manifestata dall'avverbio di negazione utilizzato, che esprime proprio una sostituzione (in-vece = in cambio, in luogo di), come a dire che le terapie del dolore sono la vera risposta alla sofferenza, e non invece l'idea di un valore redentivo di essa.

Queste affermazioni costituiscono una gravissima negazione del senso della Redenzione, la quale è stata realizzata precisamente attraverso l'assunzione della sofferenza da parte del Figlio di Dio. E questo è un fatto che ha un significato teologico e non meramente storico. Perché la passione di Cristo, con tutto il suo carico di sofferenza spirituale, psichica e fisica, non è stata un incidente di percorso, forse evitabile con un qualche chiarimento in più con le autorità giudaiche, ma una scelta ben precisa della Trinità divina. Una scelta conveniente (nel suo senso teologico di armonia, proporzione) con la situazione dell'uomo dopo il peccato originale, causa prima dell'umana sofferenza. Spiega Giovanni Paolo II: «Il male, infatti, rimane legato al peccato e alla morte. E anche se con grande cautela si deve giudicare la sofferenza dell'uomo come conseguenza di peccati concreti (ciò indica proprio l'esempio del giusto Giobbe), tuttavia essa non può essere distaccata dal peccato delle origini, da ciò che in san Giovanni è chiamato “il peccato del mondo”, dallo sfondo peccaminoso delle azioni personali e dei processi sociali nella storia dell'uomo» (n. 15). Superfluo dire che nel Piccolo lessico, di peccato non si parla proprio, auto-accecamento che conduce i curatori a non saper più scorgere il senso redentivo del dolore.

Il Signore vuole dunque salvare l'uomo dal peccato precisamente assumendo su di sé quel cumulo incessante di sofferenze (e la morte stessa) che il peccato ha riversato sugli uomini di tutti i tempi e di tutte le latitudini. Cristo – continua il Papa – «va dunque incontro alla sua passione e morte con tutta la consapevolezza della missione che ha da compiere proprio in questo modo. Proprio per mezzo di questa sua sofferenza egli deve far sì “che l'uomo non muoia, ma abbia la vita eterna”. Proprio per mezzo della sua Croce deve toccare le radici del male, piantate nella storia dell'uomo e nelle anime umane. Proprio per mezzo della sua Croce deve compiere l'opera della salvezza. Quest'opera, nel disegno dell'eterno Amore, ha un carattere redentivo» (n. 16). Il nesso peccato-sofferenza-redenzione è dunque ben saldo: il Signore Gesù, «benché innocente, si addossa le sofferenze di tutti gli uomini, perché si addossa i peccati di tutti» (n. 17). 

Tutta la storia successiva all'evento salvifico, con il suo carico di sofferenze, non è altro che la grande possibilità di partecipare alla medesima sofferenza redentiva di Cristo, unendo le proprie sofferenze alle sue, per completare nella propria carne quanto manca ai suoi patimenti (cf. Col 1, 24): «Cristo ha operato la redenzione completamente e sino alla fine; al tempo stesso, però, non l'ha chiusa: in questa sofferenza redentiva, mediante la quale si è operata la redenzione del mondo, Cristo si è aperto sin dall'inizio, e costantemente si apre, ad ogni umana sofferenza. Sì, sembra far parte dell'essenza stessa della sofferenza redentiva di Cristo il fatto che essa richieda di essere incessantemente completata (…). Questa redenzione, anche se compiuta in tutta la pienezza con la sofferenza di Cristo, vive e si sviluppa a suo modo nella storia dell'uomo. Vive e si sviluppa come corpo di Cristo, che è la Chiesa, ed in questa dimensione ogni umana sofferenza, in forza dell'unione nell'amore con Cristo, completa la sofferenza di Cristo» (n. 24).

Dunque, non è certamente il dolore in sé ad essere redentivo, ma è fuori discussione che, avendo Cristo scelto la sofferenza come strumento di redenzione, la stessa sofferenza umana diviene strumento privilegiato di redenzione, in quanto vissuta come completamento dei suoi patimenti, nel Corpo mistico della Chiesa. Questa non è una «prospettiva dolorista», ma squisitamente cristiana, sempre insegnata dal Magistero, dai Dottori e vissuta da tutti i Santi, canonizzati e non.

L'Unzione degli infermi esprime e realizza precisamente questa incorporazione alle sofferenze di Cristo, mediante la sacramentale «configurazione alla passione redentrice del Salvatore» (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1521), che viene ulteriormente “sigillata” dal Santo Viatico. Non sorprende dunque che nel libro non si faccia che un rapido cenno a tali sacramenti (vedi la voce “Accompagnamento”), che vengono declinati – e rapidamente liquidati – come una mera «contemplazione del Cristo sofferente» che procura conforto e permette di vivere la prova come «una grazia che trasfigura» (p. 21). Nessuna menzione sulla fondamentale partecipazione ai patimenti di Cristo redentore e alla configurazione a Lui crocifisso.



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