Il caso Cecchettin è una sconfitta anche per i media
La sentenza che ha condannato all'ergastolo Filippo Turetta è stata "anticipata" da un parallelo processo mediatico. Oltrepassati i limiti dell'informazione, ha prevalso un insano voyerismo che ha avvelenato il clima sociale e violato la privacy della stessa vittima.
Gino Cecchettin, padre di Giulia, uccisa da Filippo Turetta, commentando la sentenza di primo grado, giunta a un anno dall’assassinio di sua figlia, ha detto: «È una sconfitta per tutti». Voleva intendere che la violenza non si combatte con le sentenze e che anzi andrebbe prevenuta con azioni di sensibilizzazione culturale. Sicuramente c’è anche questo aspetto da valutare quando si parla dell’ergastolo a Turetta. Ma c’è anche – e in pochi lo hanno sottolineato – un vero e proprio straripamento dei media, che hanno preteso di pronunciare in anticipo la sentenza, hanno contribuito ad avvelenare il clima sociale e, soprattutto, hanno violato la privacy e la dignità di Giulia, che forse non avrebbe gradito che tutte le sue conversazioni intime con il suo ex fidanzato, poi carnefice, finissero senza filtri nel tritacarne mediatico.
I media giustificano questo voyeurismo sfrenato con la presunta finalità pedagogica dell’informazione, che secondo alcuni dovrebbe educare l’opinione pubblica, trasmettere insegnamenti, giudicare comportamenti, ispirare condotte. “Le parole di Giulia sono simili a quelle di tante ragazze che subiscono senza denunciare e poi si trovano uccise”, è uno dei commenti più ricorrenti. Ma non dev’essere quella la funzione dei giornali e delle tv, bensì quella di mediatori tra i fatti e l’opinione pubblica. I giornalisti, come attenti interpreti e scrupolosi scopritori della realtà, devono raccontare i fatti ai cittadini-utenti e, solo in seconda battuta, commentarli e provare a valutarli, senza in alcun modo assecondare le pulsioni distruttive che animano crescenti settori della società, senza cavalcare quel sensazionalismo che consente di inchiodare il pubblico ai teleschermi o di vendere qualche copia di giornale in più ma che rappresenta il fallimento dei media e la prova della loro degradazione a detonatori di odio e violenza.
Con il caso Cecchettin si è oltrepassato ogni limite da questo punto di vista: sono stati diffusi i video dei colloqui in carcere tra Filippo e i genitori, sono stati spiattellati ai quattro venti tutti gli scambi di messaggi tra Filippo e Giulia, che rivelavano particolari intimi evidentemente utili a chi indagava per stabilire l’ulteriore gravità delle azioni di Turetta ma ovviamente ininfluenti sul diritto dei cittadini ad essere informati.
Leggere quanto si scrivevano i due cosa aggiunge alla completezza del racconto, all’essenzialità della notizia? Leggere quanto annotava Giulia sul suo diario parlando del fidanzato è così fondamentale per noi? E ascoltare la riproduzione delle sue telefonate con le amiche? Al contrario, si tratta di elementi che rendono ancora più ideologico e fazioso il dibattito (vedi i riferimenti ossessivi al cosiddetto patriarcato) e che probabilmente fanno perdere di vista l’essenza della questione. Praticamente delle ultime giornate di vita di Filippo e Giulia sappiamo tutto, abbiamo visto immagini, stralci di diari, screenshot di sms, ma senza averne diritto. Il diritto all’informazione deve infatti bilanciarsi con altri diritti ugualmente meritevoli di tutela come quello alla dignità e quello alla privacy. Fu anzi proprio il Garante della privacy, già molti anni fa, in occasione di altre tragedie dal forte impatto mediatico, a raccomandare la tutela della cosiddetta “dignità della memoria”, cioè il rispetto per chi non c’è più e non ha alcun modo di esprimere una volontà sulla diffusione di suoi dati estremamente intimi e privati.
Gli eccessi dei media sono peraltro vietati dalla deontologia giornalistica. L’art. 8 del Testo unico dei doveri del giornalista impone precisi vincoli a chi fa cronaca giudiziaria. Bisogna limitarsi a raccontare indagini, processi, condanne, assoluzioni, senza anticipare provvedimenti e verdetti, senza pretendere di sostituirsi agli organi giudicanti e senza moralizzazioni a latere. I giornalisti che violano queste disposizioni deontologiche dovrebbero essere messi sotto procedimento disciplinare dai consigli di disciplina e anche i media che promuovono processi mediatici, autorizzando la trasformazione degli studi televisivi in aule di tribunale, dovrebbero essere giudicati dal Comitato per la corretta rappresentazione delle vicende giudiziarie in tv, istituito con il Codice del 2009, promosso dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom) e sottoscritto da tutti i broadcaster, che tuttavia ciclicamente lo violano senza che nessuno si ribelli a questo andazzo.
Osservando quindi la rappresentazione mediatica del caso Cecchettin ce n’è abbastanza per dire che ad aver perso sono stati finora anche giornalisti ed editori.
Turetta condannato, ma il patriarcato non andrà in galera con lui
Nel processo per l'omicidio di Giulia Cecchettin è stato messo sotto accusa non solo Filippo Turetta, che ieri è stato condannato all'ergastolo, ma anche il cosiddetto patriarcato. Ma non c'entra nulla, come invece c'entrava per il caso di Saman Abbas. C'entra piuttosto la controcultura femminista, che ha reso l'uomo meno virile e più fragile.
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Il ministro Valditara propone alle classi il discorso del padre di Giulia. Così facendo, tra i banchi si farà strada anche l'ondata ideologica con cui questa tragedia viene strumentalizzata.