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HUMANAE VITAE

I "furbetti" del caso per caso c'erano già 50 anni fa

L'esame dei documenti che hanno preceduto la pubblicazione dell'enciclica Humaane Vitae, mostra come già nel 1968 c'era chi sosteneva fosse possibile ammettere la contraccezione in alcuni casi senza mettere in discussione la dottrina. Approccio condannato da Paolo VI, che ora torna d'attualità. E anche allora la Chiesa tedesca andava per la sua strada.

Vita e bioetica 29_07_2018
Il cardinale Suenens

Corsi e ricorsi storici. Lo studio della travagliata storia che ha preceduto la promulgazione dell’enciclica Humane Vitae non cessa di insegnare e di illuminare. Molto è stato scritto e molto resterà da scrivere, ma non si può non restare colpiti nel notare come certi sofismi respinti da Paolo VI in quell’occasione, siano tornati, vivi e vegeti. E vittoriosi (almeno per ora).

Già l’ottimo studio di Puccetti (I veleni della contraccezione) aveva messo in evidenza gli assalti persuasivi di molti teologi e vescovi nei confronti di Paolo VI, affinché aprisse alla contraccezione. La nuova pubblicazione di Marengo, La nascita di un’enciclica. Humanae vitae alla luce degli Archivi vaticani, da cui “esce” un Paolo VI tutt’altro che titubante sulla questione, aggiunge qualche elemento in più.

Anzitutto, la logica di “in certi casi”. Il Cardinal Léon-Joseph Suenens, primate belga, l’aveva messa sul tavolo, per rassicurare Paolo VI che non si trattava di rompere con l’insegnamento dei suoi predecessori: il principio morale sarebbe stato salvaguardato, ma si sarebbe guadagnata un’apertura nei confronti della ricchezza della realtà fattuale. Così scriveva il porporato belga: «Non si tratta dunque di modificare i principi morali ma di vedere come essi si applichino a dei fatti nuovi; ad una natura umana della quale abbiamo una conoscenza più approfondita… Rimarrebbe una continuità fondamentale riguardo al rifiuto di ogni contraccezione arbitraria, egoista, edonista, non motivata da ragioni gravi e proporzionate» (Suenens a Paolo VI, 9 ottobre 1967).

Suenens voleva chiaramente inserire un grimaldello, che poi col tempo  - che, nel frattempo, abbiamo imparato essere superiore allo spazio – avrebbe aperto una breccia fatale; egli mirava a mettere in discussione un punto cardine dell’insegnamento magisteriale, e cioè il fatto che questa «dottrina, più volte esposta dal magistero della Chiesa, è fondata sulla connessione inscindibile, che Dio ha voluto e che l’uomo non può rompere di sua iniziativa tra i due significati dell’atto coniugale: il significato unitivo e il significato procreativo» (HV 12). Non è l’intenzione soggettiva – arbitrarietà, edonismo, egoismo e quant’altro – a rendere inaccettabile la contraccezione, ma il fatto che l’uomo non può separare ciò che Dio ha unito, e se lo fa, oltre ad offendere Dio, falsifica con i suoi atti, la verità che quegli stessi atti personali portano in sé.

Questa logica della presunta pacifica coesistenza tra l’affermazione dell’intangibilità dei principi morali da un lato, e la possibilità di eccezioni dall’altro, evidentemente non trovava spazio nella mente di Paolo VI, il quale probabilmente ricordava molto bene il quadrato logico di Aristotele e sapeva che un’affermazione universale negativa (tutte le oche non sono nere), per essere contraddetta, non ha bisogno di una universale positiva (tutte le oche sono nere); è sufficiente una particolare positiva (un’oca è nera), il caso particolare, appunto. Se la contraccezione non è mai lecita, affermare che in alcuni casi lo sia è contraddizione diretta del principio, e non suo sviluppo.

Suenens, scrive Marengo, «cercava di mostrare come la decisione di Pio XII di giudicare lecito l’uso del metodo Ogino-Knaus, pur introducendo un elemento di novità rispetto alla Casti connubii, non poteva essere inteso come discordante dal magistero di Pio XI. Analogamente così sarebbe stato se si fosse accolta la tesi di quanti sostenevano che, a determinate condizioni, i coniugi potevano usare la pillola contraccettiva». Per far digerire a Paolo VI la morale dei casi speciali, Suenens aveva dunque preparato un buon amaro, che sperava avrebbe fatto gola al Papa: Pio XII aveva affermato una novità, facendo progredire il Magistero rispetto all’insegnamento del suo predecessore, aprendo ai metodi naturali; analogamente, l’apertura alla contraccezione in certi casi, avrebbe mantenuto fermo il principio e, nel contempo, lo avrebbe illuminato e arricchito della singolarità delle situazioni, che invece non erano presenti nell’insegnamento precedente.

Sembra di sentire pari pari il ragionamento che fece il cardinal Schönborn nella sua intervista con Spadaro per Civiltà Cattolica, nel 2016 (si veda qui). Il presule austriaco richiamava il progresso operato da Familiaris Consortio, quando affermava la possibilità di accedere all’Eucaristia, per i divorziati-risposati, che, non potendo per gravi ragioni separarsi, avrebbero vissuto come fratello e sorella. La logica dei casi particolari, inaugurata con AL, si poneva, secondo Schönborn, sulla stessa linea di sviluppo e progresso.

In quell’intervista si può leggere anche un’affermazione che richiama da vicino la posizione di Suenens: «L’evoluzione presente nell’Esortazione è principalmente la presa di coscienza di un’evoluzione oggettiva, quella dei condizionamenti propri delle nostre società». Suenens rassicurava Paolo VI che la continuità dottrinale dell’apertura alla contraccezione “in certi casi”, sarebbe stata sufficientemente messa al sicuro dal fatto che allora si era raggiunta «una conoscenza più approfondita» dell’uomo; per Schönborn invece, la continuità di AL con Familiaris Consortio sarebbe assicurata dalla maggiore conoscenza odierna dei condizionamenti sociali sull’uomo.

Negli anni prossimi alla promulgazione di HV, c’è un altro aspetto che richiama alla situazione odierna: la pressione dei vescovi tedeschi e la loro rivendicazione di autonomia. Se Schönborn può essere considerato il Suenens redivivo, il Cardinal Marx è l’avatar del Cardinal Döpfner. Döpfner, anch’egli all’epoca arcivescovo di Monaco-Frisinga e presidente della Conferenza Episcopale Tedesca, cercava di intimorire il Papa, sventolandogli davanti agli occhi l’autodeterminazione dei vescovi teutonici. Anzitutto Döpfner fece presente al Papa che la maggioranza dell’episcopato tedesco aveva chiesto che venisse accolto il parere della maggioranza della Commissione del 1966, che sappiamo essere stato favorevole alla contraccezione. Poi, prospettava la catastrofe: se il Papa non avesse avallato la posizione che egli riteneva essere della maggioranza dei fedeli, ne sarebbe derivato «un danno smisurato dell’autorità ecclesiastica, in primis del Sommo Pontefice»; si sarebbe verificato «un evento terrificante e funestissimo della storia della Chiesa contemporanea» (Döpfner a Paolo VI, In Audientia, 31 maggio 1968).

Anzi, Döpfner era già passato dalle parole ai fatti; aveva infatti provveduto a distribuire ai sacerdoti della propria diocesi una guida pastorale, nella quale si affermava che i fedeli che non potevano non ricorrere alla contraccezione (introducendo così l’idea che la grazia non sia sufficiente ad evitare il peccato), non essendo soggettivamente in stato di peccato grave, potevano ricevere la Santa Comunione. Anche il vescovo ausiliare di Magonza, Mons. Reuss, suggeriva al Papa un nuovo approccio pastorale della stessa tonalità di quello già reso operativo da Döpfner. Così Marengo riassume la sua posizione: «I possibili – e prevedibili – episodi di caduta rispetto alle norme morali della continenza e castità coniugali dovevano essere collocati nel più ampio cammino di crescita e maturazione della coppia. Questo voleva dire rimodulare in maniera meno rigida le indicazioni fissate da Casti connubii, evitando così di considerare sempre quelle cadute come peccati mortali».

Si può notare che Reuss già cercava di intorbidire le acque. L’insegnamento di Pio XI chiamava peccato grave ogni atto volto a rendere infecondo il rapporto coniugale, perché così è oggettivamente; allora come oggi, si era ben consapevoli dei condizionamenti soggettivi, più o meno forti, ma si era anche coscienti del fatto che non è possibile a nessuno, se non a Dio, misurare il grado di imputabilità di un’azione. Ergo, quando si commette un peccato grave, non resta che una cosa sola da fare: prostrarsi davanti a Dio e domandare perdono, proponendo con tutte le proprie deboli forze e soprattutto confidando nella grazia di Dio, di non commetterlo più.

E’ stata questa infatti la linea scelta da Paolo VI, il quale declinò la pericolosa impostazione di Reuss: “Affrontino quindi gli sposi i necessari sforzi, sorretti dalla fede e dalla speranza […]; implorino con perseverante preghiera l’aiuto divino; attingano soprattutto nell’eucaristia alla sorgente della grazia e della carità. E se il peccato facesse ancora presa su di loro, non si scoraggino, ma ricorrano con umile perseveranza alla misericordia di Dio, che viene elargita con abbondanza nel sacramento della penitenza” (HV 25).