I cento giorni di guerra che stanno cambiando il Medio Oriente
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L'attacco di Hamas a Israele, il 7 ottobre, ha cambiato il Medio Oriente per sempre. Gaza è distrutta, Yemen e Libano coinvolti, Israele si sta trasformando.
Erano le 5.30 del mattino, ora italiana, dello scorso 7 ottobre, quando il confine tra Israele e la Striscia di Gaza veniva invaso da migliaia di miliziani del gruppo terroristico di Hamas. Un assalto improvviso, quello di cento giorni fa, che l’intelligence, i generali e il governo non si aspettavano: un'azione rapida e brutale, ma con un'efficacia dirompente. Cinquant'anni fa, il 6 ottobre del 1973, Israele veniva colto di sorpresa, subendo un pesante attacco dagli eserciti arabi che per qualche giorno fecero tremare lo Stato ebraico.
"Alluvione al-Aqsa" è stato questo il nome dato all'operazione dell’ottobre dello scorso anno, dal comandante Mohammed Deif, all'invasione in territorio israeliano dei miliziani di Hamas, con il supporto di altri gruppi terroristici operanti nella Striscia di Gaza. Da quel tragico e crudele giorno ad oggi, il bilancio della reazione israeliana è veramente pesante: almeno 23.843 sono le vittime palestinesi, e più di 60.317 sono i feriti. Secondo il ministero della Sanità di Gaza circa i due terzi dei morti sono donne e bambini. I numeri, però, non distinguono tra combattenti e civili. Ma al conteggio ufficiale dei morti vanno aggiunte le migliaia di dispersi sotto le macerie. Tra le vittime anche 117 giornalisti. Oltre un milione e mezzo di palestinesi senza casa.
Mentre il bilancio rivisto delle vittime in Israele dell'attacco del 7 ottobre è di 1.139 persone. Gli israeliani in ostaggio e ancora trattenuti a Gaza sono 136.
La guerra tra Hamas e Israele è, in ogni caso, crudele e tragica. Ogni giorno il numero dei morti nella Striscia è il più alto di ogni altro conflitto del XXI Secolo: 250 palestinesi uccisi ogni 24 ore. Secondo un'indagine condotta da associazioni umanitarie, i morti in un giorno, durante il conflitto in Siria, sono stati 96, in Sudan 51, in Iraq 50 e in Ucraina 43.
Le Forze di Difesa Israeliane (IDF) hanno dichiarato, in un comunicato diramato nella prima mattinata di ieri, 14 gennaio, che altri soldati israeliani sono stati uccisi in combattimento e che sono 188 i militari israeliani morti dall'inizio dell'operazione di terra nella Striscia, 1099 i feriti. Un bilancio complessivo veramente terribile.
È con questi numeri che si è aperta all'Aia, davanti alla Corte internazionale di Giustizia, l’azione legale promossa dal Sudafrica contro lo stato di Israele, per presunte violazioni della Convenzione sul Genocidio nel conflitto in corso nella Striscia di Gaza. Un'accusa raccolta in 84 pagine. «La nostra opposizione al massacro in corso della popolazione di Gaza ci ha spinto, come paese, a rivolgerci alla Corte Internazionale di Giustizia – ha dichiarato il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa –, come popolo che ha assaggiato i frutti amari dell'espropriazione, della discriminazione, del razzismo e della violenza sponsorizzata dallo stato, siamo chiari sul fatto che staremo dalla parte giusta della storia».
Accuse respinte da Israele che ha inviato all'Aia una qualificata e agguerrita squadra di avvocati. Ma anche il premier Benjamin Netanyahu ha respinto con forza le accuse di genocidio. «Quello del Sudafrica è un attacco ipocrita, che rappresenta il livello più basso della storia delle nazioni – ha detto il primo ministro –. I sostenitori dei nuovi nazisti osano accusarci di genocidio, mentre Israele sta combattendo una guerra morale e giusta senza precedenti». Lo scorso venerdì, nel corso di una conferenza stampa, ha affermato: «Nessuno ci fermerà, né l’Aia, né l'Asse del Male».
Mentre Netanyahu parlava, una grande folla di oltre 120mila persone si è riunita nella piazza centrale di Tel Aviv per contestare il primo ministro, chiedendo le sue dimissioni e quelle dei ministri dell'estrema destra. La maggior parte dei manifestanti issava la bandiera israeliana e cartelli di protesta con le foto degli ostaggi. "Riportateli a casa" era l'appello che primeggiava tra le scritte. «Come possiamo crescere i bambini qui e promettere loro che andrà tutto bene se sappiamo che abbiamo lasciato lì gli ostaggi? – ha detto Merav Svirsky, i cui genitori sono stati assassinati il 7 ottobre nel kibbutz Be'eri e suo fratello Itai Svirsky è ora in ostaggio a Gaza -. Cento giorni sono troppi e pensiamo che il tempo sia scaduto; quindi, facciamo quello che è in nostro potere per riportare a casa i familiari ostaggio di Hamas».
Ieri, domenica, Israele si è fermata per 100 minuti, nella ricorrenza dei 100 giorni di prigionia dei connazionali ancora nelle mani dell’organizzazione terroristica palestinese. Alle 11 in punto è iniziato uno sciopero di 100 minuti in solidarietà con i rapiti, contestazione a cui hanno aderito 150 aziende; anche le università si sono fermate e negli ospedali di tutto il paese ci sono stati momenti di solidarietà. Il prof. Yoram Weiss dell'ospedale Hadassah di Gerusalemme rivolgendosi al personale ha detto: «Sono orgoglioso di voi, popolo di Hadassah, per tutto ciò che avete fatto e dato in questi cento giorni per salvare vite umane, curare e riabilitare i feriti».
A Gaza, invece, nel centesimo giorno di guerra si continua a morire. Il 60% delle abitazioni è stato completamente distrutto. Gli ospedali sono al collasso; mancano medici e l’occorrente per curare i feriti. Suhaib Alhamss ha 35 anni ed è medico a Gaza. Lavora nell'ospedale finanziato dal governo del Kuwait vicino al confine di Rafah. Raggiunto telefonicamente per pochi minuti, tra un intervento chirurgico e l'altro, ha dichiarato, con voce disperata, che «tutta l'area, tutta Gaza è ormai una catastrofe. Prima della guerra il nostro ospedale aveva quattro sale di terapia intensiva ed erano sufficienti, ora riceviamo oltre 1500 feriti al giorno in gravissime condizioni. Non abbiamo letti per tutti. Mancano anche coperte e materassi. I pazienti vengono messi nei corridoi. Ma molti arrivano privi di vita. È uno scenario orribile. Ma io non scappo. Aiuterò finché avrò forza questa povera gente».
Ma non solo Gaza. Il clima di guerra sta interessando altri paesi del Medio Oriente. Il nord di Israele confinante con il Libano, giorno dopo giorno, diventa sempre più teatro di scontri. I soldati israeliani, nel corso di un pattugliamento a Har Dov, una striscia di terra tra il confine libanese-siriano e le alture del Golan, hanno ucciso, durante un conflitto a fuoco, quattro terroristi che si erano infiltrati dal Libano, utilizzando anche l'artiglieria.
Nel frattempo, non si fermano gli attacchi guidati dagli Stati Uniti contro gli Houthi, miliziani yemeniti legati all’Iran che attaccano le navi mercantili sulle rotte commerciali del Mar Rosso. Secondo alcuni funzionari dell'amministrazione Biden, il 20-30% delle capacità offensive degli Houthi sono state distrutte o danneggiate nelle azioni militari, ma molte delle loro piattaforme missilistiche sono mobili e possono essere facilmente spostate. Il portavoce degli Houthi, Nasruldeen Amer, ha dichiarato che gli attacchi non hanno causato né feriti, né morti, ma che ci sarà una «forte ed efficace risposta alle azioni terroristiche di Stati Uniti e Inghilterra».
Un nuovo focolaio si sta alimentando sempre in Medio Oriente: la Turchia ha condotto, tra sabato e domenica scorsi, raid aerei notturni su quasi trenta obiettivi terroristici nel nord dell’Iraq e in Siria, neutralizzando venti miliziani del Pkk in Iraq, dopo che il gruppo terroristico aveva ucciso nove soldati turchi venerdì scorso.
Da quel 7 ottobre sono trascorsi cento giorni che hanno sconvolto Israele; cento giorni in cui Gaza è stata devastata; cento giorni che stanno per trasformare il Medio Oriente in una polveriera. Con una sola certezza: Gaza non sarà più la stessa, ma anche Israele diventerà un nuovo Israele.