Guerra in Israele. Mai prendersi gioco della verità
Il vulcano del conflitto si è risvegliato in terra d'Israele, con una violenza inattesa. A scatenarne l'eruzione è stato soprattutto il diniego della verità. Da parte della politica israeliana che non riconosce la vittoria di Netanyahu. Da parte dell'Autorità Palestinese che non vuole confrontarsi con gli elettori. Da parte di Biden che finge di non vedere il pericolo dell'Iran né la pace fra Israele e i sunniti.
Il “vulcano” in terra d’Israele si è risvegliato e la ”eruzione” che ha generato è di una violenza inattesa, come non la vivevano da anni i suoi protagonisti. I razzi palestinesi lanciati da Gaza e diretti su Gerusalemme, capitale di uno Stato inaccettabile e teatro di una inestinguibile acredine, rappresentano il superamento di una “linea rossa”, una sfida inaccettabile (come ha detto il premier in carica Benjamin Netanyahu). Ai missili caduti sulle città costiere del sud, fino a Tel Aviv, Israele ha risposto con una serie ininterrotta di raid aerei. Numerose le vittime civili, estesi i danni. Qualcuno, in campo musulmano, ha tirato fuori dalle memorie il termine di intifada per le sue evidenti connotazioni di rivolta, di scesa in campo in odio agli ebrei, di “nuova guerra”, ma il paragone con la vera prima intifada (cominciò nel dicembre 1987) non regge. Tante circostanze sono diverse. Ed infatti questa “eruzione” ha motivazioni e caratteristiche sue proprie salvo quella che sta verificandosi in un momento di avvertita debolezza del nemico.
Il cammello sa coglierlo per sferrare il calcio, aggredire l’uomo che sente padrone. Dimentico che questi gli dia nutrimento e acquieti la sua sete. Proprio come gli estremisti palestinesi che dagli israeliani sono stati vaccinati contro il Covid. Ma la debolezza non è solo del sistema politico israeliano, è pure di quello palestinese e del quadro politico del Vicino Oriente e internazionale, per come cercheremo di evocare. A determinarla sono le stesse radici, la stessa causa, il medesimo fenomeno che più volte in questi anni abbiamo denunciato: la presa in giro della verità.
Ieri, e quasi per un ventennio, nella finta accettazione di incessanti sforzi diplomatici del processo di pace, oggi – cominciamo l’esame – nella mentalità degli israeliani, tanto evidente da far riflettere sulla ottenebrazione della spiccata intelligenza dei loro progenitori nel corso dei secoli, causa di tante funeste conseguenze. È noto che negli ultimi due anni ben quattro consultazioni elettorali si sono svolte per dotare la loro nazione di un governo stabile ma anche dall’ultima non è emersa una maggioranza parlamentare. Sicché, fallito il mandato di Netanyahu pur dotato il suo partito di un quarto dei deputati della Knesset (30 su 120), il presidente Reuven Rivlin ha dato l’incarico di formare una coalizione al principale esponente dell’opposizione, Yair Lapid, capo del partito Yesh Atid (C’è futuro).
È possibile che egli riesca a varare un “governo del cambiamento”, riunendo piccoli partiti di destra e di sinistra e alcuni deputati della minoranza araba, e scongiurando così una quinta chiamata alle urne. Ma potrà mai questo governo reggersi soltanto sul collante dell’avversione di principio a Netanyahu (soprannominato “re Bibi”), ininterrotto premier dal 2009 (e lo era stato dal 1996 al 1999)? Dimenticando, a parte la diversa estrazione (visione, valori, principi) dei componenti, che la nazione si trova, sempre, a fronteggiare il medesimo prioritario problema, quello della sua esistenza minacciata dagli stessi nemici. E trascurando pure (intendiamo soltanto evocarli) i grandi successi di Netanyahu premier, riconosciutigli da mezzo mondo: la sicurezza dei cittadini, il rafforzamento dello Stato e della capitale Gerusalemme, il benessere e lo sviluppo economico, i trattati di pace con quattro Stati arabi, il progresso tecnologico, il primato mondiale nella vaccinazione anti-Covid.
Presa in giro della verità anche da parte di molti palestinesi; che però hanno ben compreso come la grande crisi politica israeliana fosse di stimolo alla manifestazione del loro odio e delle loro mai sopite aspirazioni. È successo che il loro presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha rinviato sine die le elezioni politiche previste per il 22 maggio sostenendo che non veniva assicurata la partecipazione dei residenti a Gerusalemme Est. Un pretesto, perché in passato ciò è sempre avvenuto (nel 1996, 2005 e 2006, anno delle ultime consultazioni). La verità è che Abbas le avrebbe perse, non soltanto perché il suo partito Fatah vive una crescente sfiducia in Cisgiordania, e probabilmente sarebbe stato sconfessato dalle due principali liste concorrenti presentate dai seguaci di Marwan Barghouti e di Mohammad Dahlan (il primo in carcere israeliano, condannato a cinque ergastoli; il secondo in esilio negli Emirati del Golfo); ma anche per la pronosticata, umiliante sconfitta di Hamas, il movimento islamico al potere nella Striscia di Gaza.
Tanto che Hamas ha bollato la decisione di Abbas come “colpo di stato”. Altro che riconciliazione tra Hamas e Fatah, come entrambi davano a intendere! Questa persistente rivalità è stata certamente una concausa della “eruzione” della violenza alla quale Hamas e la Jihad islamica si sono preparati da tempo, sovvenzionati naturalmente da Paesi musulmani nemici di Israele; una violenza che a Gerusalemme ha visto i suoi membri, ma anche quelli di al-Fatah, scendere sulle strade, in particolare in occasione di scontri con estremisti ebrei nel tentativo di affermare la loro valenza.
Del rinvio delle elezioni palestinesi si parlava da oltre un mese. Abbas non aveva altro espediente per mantenere il potere e assecondare così la restaurazione intrapresa dal neo presidente degli Stati Uniti Joe Biden della politica obamiana nella regione. Politica che ha determinato l’indebolimento di Israele e di Netanyahu e aggravato la paralisi del processo di pace. Biden ha infatti preso le distanze da quella di Donald Trump, soprattutto con la ripresa dei finanziamenti non solo all’Autorità Palestinese (che se ne serve, insieme con quelli dell’Unione Europea mai cessati, per assicurare rilevanti sovvenzioni alle famiglie dei cosiddetti “martiri”, cioè di terroristi e protagonisti di attentati), ma anche all’UNRWA, l’agenzia dell’ONU per gli “eterni” profughi palestinesi.
Della presa in giro della verità da parte di Joe Biden si sta assistendo anche con la riaffermazione della sua volontà di riprendere il negoziato nucleare con l’Iran, principale nemico sciita di Israele e del mondo musulmano sunnita che sono i suoi tradizionali alleati. Se è rimasta inspiegabile l’assegnazione a Barack Obama del Nobel per la pace, così lascia perplessi l’atteggiamento di Biden verso i paesi del Golfo che hanno stipulato dei trattati di pace con Israele e che sono ben lontani da tale riconoscimento. In effetti è tutto il quadro politico internazionale che si è deteriorato nel Vicino e Medio Oriente per l’abdicazione dal ruolo di grande potenza manifestata dagli Stati Uniti; che fra l’altro ha consentito l’affermarsi di quello della Russia e della Turchia, vede il disimpegno del mondo occidentale dall’Afganistan e dalla lotta al terrorismo islamico, lascia inquietante la situazione in Siria e Iraq, e ha riportato indietro il processo di pace israelo-palestinese.
Solo che con la verità non è possibile giocare. Non è infatti possibile dimenticare le conseguenze delle tre guerre della metà del secolo scorso, promosse dal mondo arabo-musulmano e tutte perdute. Come non è ipotizzabile l’idea di due Stati per due popoli, nel medesimo rivendicato territorio, senza comuni e condivise premesse per la reciproca accettazione, trattandosi di una strada da percorrere nella visione e nella pratica del bene comune, a cominciare dal riconoscimento e rispetto di interessi comuni. Sappiamo che questa è la strada tracciata dall’Assemblea Generale dell’ONU con la Risoluzione 181 del 29 novembre 1947, ovvero con la nascita dello Stato d’Israele e di uno Stato arabo e con uno statuto speciale e le garanzie internazionali per Gerusalemme. Finora, purtroppo, una utopia.