Guerra a Gaza: gli accordi di pace sfuggono di nuovo
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Gaza: trattativa ancora in corso, ma accordi rinviati perché Hamas alza il tiro delle richieste. Devastazione senza fine e fiducia distrutta fra le comunità religiose.
Mentre la delegazione di Hamas lascia il Cairo durante le trattative per il cessate il fuoco, dalla Striscia di Gaza, un missile, lanciato dai miliziani dalla zona di Rafah, verso il valico di frontiera di Kerem Shalom, ha provocato la morte di tre soldati israeliani e ne ha feriti altrettanti. In risposta, l'aeronautica militare israeliana ha aumentato le sue incursioni contro i centri di comando di Hamas a Rafah soprattutto in direzione dei luoghi da dove sono partiti i razzi, che sembra provenissero da piattaforme sotterranee.
Ismail Hanyeh, leader politico di Hamas, poco prima che la delegazione abbandonasse il tavolo dei negoziati, ha annunciato che il rilascio di Marwan Barghouti, considerato da tempo il successore naturale del presidente dell'Autorità Palestinese Abu Mazen, e che sta scontando nelle carceri israeliane qualcosa come cinque ergastoli per omicidio, è una delle condizioni nell’eventuale scambio di ostaggi-prigionieri all’interno di un accordo più vasto tra le parti. Accordo, però, che, quando sembra raggiunto, sfugge di mano. La liberazione di Barghouti è una delle richieste più precise e impegnative avanzate da Hamas da quando sono iniziate le prime trattative per la liberazione degli ostaggi israeliani. Ieri, la delegazione di Hamas ha lasciato il Cairo accusando il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu di "sabotare" i negoziati, mentre Israele, da parte sua, accusa il gruppo terroristico palestinese di ostacolare le trattative con richieste inaccettabili.
Il braccio di ferro, dunque, tra il governo Netanyahu e Hamas prosegue. Israele, anche se i colloqui per un cessate il fuoco ufficialmente sono ancora in corso, manda ad Hamas, però, un messaggio chiaro: se non si raggiunge un accordo entro una settimana, comincerà l'operazione a Rafah. Funzionari egiziani hanno affermato che Hamas sta cercando di ottenere una tregua a lungo termine e garanzie da parte degli Stati Uniti che il cessate il fuoco sia rispettato da Israele. Ma il gruppo terroristico che controlla Gaza ritiene che l'ultima proposta della controparte sia ancora troppo vaga e assicuri ad Israele la possibilità di riprendere i combattimenti.
Intanto, la guerra tra Israele e Hamas prosegue da sette mesi e l'elenco delle vittime del conflitto si allunga di giorno in giorno. A Gaza, secondo i dati forniti dal Ministero della Salute di Hamas, che governa la Striscia, i morti sono quasi 35mila, uomini, donne e anziani, mentre superano le 77mila unità i feriti, molti dei quali versano in gravi condizioni. Diecimila persone, e questi sono i dispersi, sono ancora sepolte sotto le macerie. Ma il dato più drammatico riguarda i quasi 15mila bambini morti dall'inizio di questa assurda ed inutile guerra; più che in tutte le guerre degli ultimi quattro anni.
Dopo quel terribile e doloroso 7 ottobre scorso, quando i miliziani di Hamas uccisero 1200 israeliani, tra civili e militari, e presero, come ostaggi, 240 persone trasferendole a Gaza, il governo israeliano guidato da Benjamin Netanyahu ha scatenato una guerra il cui obiettivo principale è l'annientamento del gruppo terroristico che governa Gaza. Ma a distanza di mesi sembra evidente che questo scopo non sia stato raggiunto, nonostante il coinvolgimento di tanti palestinesi inermi e innocenti. Si parla di qualcosa dai 144mila e i 175mila edifici danneggiati o distrutti. Una percentuale compresa tra il 50 e il 61% delle abitazioni di Gaza. In molte zone, un panorama lunare e piatto ha preso il posto di quartieri palestinesi, che prima del 7 ottobre erano tra i più densamente abitati al mondo. Miliardi di shekel - centinaia di milioni di dollari - vengono spesi ogni giorno per il conflitto. E col passare del tempo il sostegno internazionale ad Israele si va affievolendo, mentre aumenta, in modo esponenziale, il sentimento antisemita in tutto il mondo. In quasi sette mesi di guerra Israele non è riuscito ad eliminare le capacità di resistenza di Hamas – che pur avendo sofferto considerevolmente – è ancora il governo de facto dell’enclave. Contemporaneamente la posizione politica israeliana, in tutta la regione mediorientale, si sta indebolendo e vengono messi in discussione gli accordi siglati tra gli Stati arabi e il governo guidato da Netanyahu.
Ma anche sul fronte interno c’è fermento. Ieri, durante la riunione settimanale del gabinetto di guerra, il ministro della Sicurezza nazionale Ben Gvir ha criticato il ministro della Difesa Yoav Gallant, accusandolo di impedire all'esercito di invadere Rafah. Il primo ministro Netanyahu, da parte sua, ha reagito in modo stizzito: «Nessuno deve dirmi cosa fare o come farlo». Netanyahu avrebbe anche aggiunto che «se qualcuno pensa che abbandoneremo la nostra intenzione di eliminare Hamas, si sbaglia». Ha inoltre affermato che, nonostante i ritardi, Israele alla fine eliminerà Hamas.
Questa mattina, lunedì 6 maggio, il Comando dell'esercito israeliano ha annunciato che è iniziata l'evacuazione dei civili dalla parte orientale di Rafah verso il campo-tenda allestito tra al-Mawasi e Khan Yunis e il centro di Gaza. L'appello all'evacuazione è stato lanciato attraverso volantini, sms, telefonate e dichiarazioni in arabo. «L'Idf continuerà ad operare per realizzare gli obiettivi della guerra, compreso lo smantellamento di Hamas e il ritorno di tutti gli ostaggi», ha affermato il portavoce dell'esercito israeliano.
Scontento e rabbia montano nell’opinione pubblica israeliana. Le manifestazioni e le richieste di dimissioni del governo sono quasi quotidiane. Nelle piazze di Tel Aviv e di Gerusalemme, una folla diversificata, composta da pacifisti, sfollati dei kibbutz del sud e del nord, familiari degli ostaggi ancora trattenuti nella Striscia prosegue nella protesta. Tutti uniti solamente da una richiesta condivisa: le dimissioni del premier Benjamin Netanyahu. Un popolo diviso, unito, purtroppo, dall'odio contro i palestinesi. Ma anche quest’ultimi guardano agli israeliani come a coloro che stanno portando morte e distruzione nella loro terra.
«Nessuno è un’isola: quando si distrugge il volto dell’altro, si dissolve anche il nostro, specialmente nell’era di interconnessione globale in cui viviamo. Se affondiamo, affonderemo insieme, nella stessa barca». A pronunciare queste parole è stato il cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme dei Latini. Invitato a Roma dal magnifico rettore della Lateranense, mons. Alfonso Vincenzo Amarante, nell'aula magna dell’università pontificia ha tenuto una lectio magistralis sul tema: Caratteri e criteri per una pastorale della pace, mentre, papa Francesco quasi contemporaneamente, riceveva re Abdallah II di Giordania. «Quanto sta avvenendo in Terra Santa è una tragedia senza precedenti. Oltre alla gravità del contesto militare e politico, sempre più deteriorato, si sta deteriorando anche il contesto religioso e sociale. Il solco di divisione tra le comunità, i pochi ma importanti contesti di convivenza interreligiosa e civile si stanno poco alla volta disgregando, con un atteggiamento di sfiducia che invece cresce ogni giorno di più. Un panorama desolante».
Pizzaballa è molto preoccupato. È addolorato per quanto sta accadendo in quella che fu la terra di Gesù Cristo e della prima comunità cristiana. «Il mondo ebraico non si è sentito sostenuto da parte dei cristiani e lo ha espresso in maniera chiara – ha dichiarato il cardinale Pizzaballa -. I cristiani a loro volta, divisi come sempre su tutto, incapaci di una parola comune, si sono distinti se non divisi sul sostegno ad una parte o all’altra, oppure incerti e disorientati. I musulmani si sentono attaccati, e ritenuti conniventi con gli eccidi commessi il 7 ottobre… Insomma, dopo anni di dialogo interreligioso, ci siamo ritrovati a non intenderci l’un l’altro. È per me, personalmente, un grande dolore, ma anche una grande lezione». E conclude: «Tutti gli accordi di pace in Terra Santa, finora, sono di fatto falliti perché erano spesso accordi teorici, che presumevano di risolvere anni di tragedie senza tenere in considerazione l’enorme carico di ferite, dolore, rancore, rabbia che ancora covava e che in questi mesi è esploso in maniera estremamente violenta. Non si è tenuto conto, inoltre, del contesto culturale e soprattutto religioso, che invece parlava una lingua esattamente contraria - a cominciare dai leader religiosi locali - da quella di chi parlava di pace».
In questi giorni, inoltre, il governo israeliano ha deciso di chiudere gli uffici di Al Jazeera, la rete televisiva satellitare con sede in Qatar. Si tratta di una «decisione molto pericolosa contro Al Jazeera e contro i media internazionali in generale perché è chiaro che si vuole impedire a tutti di sapere cosa sta succedendo in questa guerra, a Gaza, in Israele e in Cisgiordania» hanno affermato in una nota, domenica scorsa, i responsabili della rete.