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i venerdì della Bussola

Guarire dalla ferita dell'aborto annunciando la vita

Riannodare i fili di una maternità spezzata per restituire pace alle madri che hanno abortito: Monika Rodman intervistata da Ermes Dovico racconta l'esperienza di speranza e guarigione di tante donne che hanno incontrato la Vigna di Rachele.

Vita e bioetica 18_01_2025

Nell’enciclica Evangelium Vitae, accanto alla ferma condanna dell’aborto San Giovanni Paolo II rivolgeva il pensiero alle donne che vi avevano fatto ricorso: «La Chiesa sa quanti condizionamenti possono aver influito sulla vostra decisione, e non dubita che in molti casi s'è trattato d'una decisione sofferta, forse drammatica. Probabilmente la ferita nel vostro animo non s'è ancor rimarginata» (n. 99). Ferite di cui si fa carico da decenni La Vigna di Rachele, apostolato internazionale fondato negli Stati Uniti dalla psicologa Theresa Burke e portato in Italia da Monika Rodman Montanaro, ospite dell’ultimo “Venerdì della Bussola” sul tema Nella tempesta una fede certa, condotto da Ermes Dovico.

A questa fede attinge l’équipe della Vigna di Rachele per riannodare i fili di una maternità spezzata e restituire pace al cuore delle mamme che hanno abortito. E che a loro volta si impegnano poi ad aiutare altre madri che recano i segni della stessa «esperienza traumatica» – così la definisce la Rodman, che ripercorre le origini della Vigna di Rachele, nata proprio dall’«esplosione» di un malessere che, pur negato, riemergeva sotto forma di altre sofferenze.

Theresa Burke seguiva alcune donne alle prese con disturbi alimentari, finché una sera una di loro parlò della propria esperienza dell’aborto. «Il gruppo esplose, perché anche altre donne presenti avevano abortito ma nessuna di loro osava parlarne». Emerse che il primo problema era proprio quello del «lutto proibito» e di una «maternità soppressa» di cui però non si doveva – e non si deve – parlare. Infatti la Burke fu richiamata dal proprio supervisore: «non hai diritto a indagare sugli aborti passati, occupati solo dei disturbi alimentari». Lei intuì che invece c’era una ferita spirituale che le donne stesse intendevano manifestare per elaborarla. «Loro stesse, le sue prime pazienti le hanno insegnato che ci voleva altro» – racconta la Rodman –, e ascoltandole Theresa Burke comprese che, pur non essendo cattoliche, avrebbero beneficiato del «principio della sacramentalità, dei cinque sensi come doni per comunicare la grazia di Dio».

Era il primo elemento della Vigna di Rachele, poi sviluppato in un percorso di 14 incontri settimanali e infine trasformato in un weekend di ritiro «pasquale» di tre giorni. Con la presenza di un sacerdote, di una psicologa, «ma soprattutto di altre donne, e a volte anche uomini, che hanno fatto una simile esperienza e un proprio percorso di guarigione interiore». Dovico ricorda la testimonianza di due donne, Daria e Maria, passate dal dramma dell’aborto alla speranza grazie all’incontro con La Vigna di Rachele e divenute a loro volta «missionarie della vita». Di questo percorso è immagine il Monumento della speranza, opera della scultrice Beverly Paddleford, che raffigura Gesù seduto accanto a una madre che ha abortito: «è Gesù che ricuce il legame materno spezzato dall’aborto. Questa immagine porta grande consolazione a mamme che si chiedono: dov’è mio figlio?», spiega la Rodman. «È una speranza che non proviene dalla psicologia, ma dalla fede cristiana», aggiunge.

Il monumento ora è giunto a Loreto per i 10 anni del Centro di Aiuto alla Vita locale, grazie al dottor Roberto Festa. «Lo sguardo di Gesù in questo monumento è pieno di compassione per la mamma, che ritrova speranza nel vedere il bambino al sicuro, amato da Gesù», riannodando i fili della maternità spezzata, che non guarisce negandola ma riconoscendola. La Rodman racconta di molte madri che continuano a confessare l’aborto: «Non dobbiamo interpretare quel ritorno al confessionale come mancanza di fede... la mamma sa di essere perdonata da Dio ma non riesce  a perdonare se stessa. Quel buio sacro del confessionale è l’unico luogo in cui viene riconosciuta quella maternità, dove vede riconosciuto quel figlio». Per questo molti sacerdoti consigliano di dare un nome al bambino. Di qui anche l’importanza della «funzione commemorativa dei bambini» accanto all’adorazione e ai sacramenti, per ripristinare un legame spirituale con quel figlio che «è vivo in Cristo», pronunciandone il nome, leggendo una lettera, una richiesta di perdono o di intercessione.

Una speranza e un’esigenza per le madri e per i padri, poiché «moralmente anche l’uomo commette l’aborto» dal momento che «nessuna donna sale da sola sulla barella. C’è tutta una serie di paure, pressioni, minacce, abbandoni, che spesso conducono la mamma ad arrendersi alla volontà di altri». Non esattamente una libera scelta. E quando il figlio non è suo, perché magari l’aborto è avvenuto molto prima del matrimonio, può accadere che il marito adotti spiritualmente quel bambino abortito tanti anni prima da sua moglie. Contribuendo così alla guarigione da un lutto, che non avviene mai in solitudine, ma grazie a una comunità, a una famiglia di fede, a quanti a loro volta hanno sperimentato la guarigione. L’esperienza della Vigna di Rachele testimonia che «guarire si può», vivendo in prima persona l’appello di San Giovanni Paolo II a «essere con la vostra sofferta testimonianza tra i più eloquenti difensori del diritto di tutti alla vita», diventando «artefici di un nuovo modo di guardare alla vita dell'uomo».



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