Gesù e il Giovedì Santo, non può morire chi mangia la Vita
Durante l’Ultima Cena, prima dell’agonia interiore nel Getsemani, Gesù istituisce la Santa Eucarestia, affinché lo Sposo possa restare sempre con la sua Sposa, la Chiesa. «Questo è il pane della vita: dunque, chi mangia la Vita, non può morire. Come potrà morire chi ha per cibo la Vita?», scrive sant’Ambrogio. Gli fa eco sant’Agostino spiegando «che fu proprio l’amore» per noi a condurre alla morte Nostro Signore, che volle liberarci dalla schiavitù del peccato.
“Li amò sino alla fine” (Gv 13, 1). Il Giovedì Santo, che apre il Triduo Pasquale, cuore dell’anno liturgico, è annuncio e memoriale del desiderio ardente del cuore di Cristo, un roveto che brucia senza consumarsi. Come scrive sant’Agostino commentando il passo dell’evangelista Giovanni: “Questa frase del Vangelo può anche essere interpretata in senso umano, nel senso cioè che Cristo amò i suoi fino alla morte. Questa è un’opinione umana, non divina: non si può dire infatti che ci amò solo fino a questo punto colui che ci ama sempre e senza fine. Lungi da noi pensare che con la morte abbia finito di amarci colui che non è finito con la morte”. Perciò quest’espressione “va intesa nel senso che li amò tanto da morire per loro”, ossia “che fu proprio l’amore a condurlo alla morte”.
Così, alla vigilia della sua Passione, dopo aver reso partecipi i suoi della propria volontà di essere una sola cosa con loro, Gesù istituisce il sacramento dell’amore, la Santa Eucarestia, affinché lo Sposo possa restare sempre con la sua Sposa, la Chiesa. “Riconoscete nel pane quello stesso corpo che pendette sulla croce e nel calice quello stesso sangue che sgorgò dal suo fianco. Prendete dunque e mangiate il corpo di Cristo, ora che anche voi siete diventati membra di Cristo nel corpo di Cristo; prendete e abbeveratevi col sangue di Cristo. Per non distaccarvi, mangiate quel che vi unisce; per non considerarvi da poco, bevete il vostro prezzo. Come questo, quando ne mangiate e bevete, si trasforma in voi, così anche voi vi trasformate nel corpo di Cristo, se vivete obbedienti e devoti. Se dunque avrete in lui la vita, sarete con lui in una sola carne. Non è infatti che questo sacramento dia il corpo di Cristo per poi lasciarvene separati”. In queste parole del vescovo di Ippona è rivelato il mistero mirabile del “segno dell’amore supremo del Figlio” che, nel sacramento del suo Corpo e Sangue, prefigura e compie il dono della propria vita umana e divina.
In questo modo, per dirla con san Leone Magno, “diveniamo portatori integrali, in anima e corpo, di Colui col quale e nel quale siamo morti, sepolti e risuscitati”. Allora, scrive sant’Ambrogio, “sta a te prendere questo pane. Accostati a questo pane o lo prenderai. Se ti allontanerai da Cristo morirai, se ti avvicinerai a Cristo vivrai. Questo è il pane della vita: dunque, chi mangia la Vita, non può morire. Come potrà morire chi ha per cibo la Vita? Come potrà venir meno chi avrà la Vita per sostentamento? Accostatevi a Lui e saziatevi: Egli è pane. Accostatevi a Lui e bevete: Egli è la sorgente. Accostatevi a Lui e lasciatevi illuminare: Egli è la luce. Accostatevi a Lui e lasciatevi liberare: infatti dove c’è lo Spirito del Signore, lì c’è la libertà. Accostatevi a Lui e lasciatevi sciogliere dai legami: Egli è la remissione dei peccati”.
La consegna senza riserve di Cristo durante l’Ultima Cena si traduce anche nell’umile gesto del Maestro che si china a lavare i piedi dei discepoli, ulteriore testimonianza di una regalità che si fa servizio generoso di sé ai fratelli, “i quali già erano puliti e mondi”. In questo modo, però, scrive sant’Agostino, “Gesù volle farci riflettere che noi, a causa dei nostri legami e contatti terreni, nonostante tutti i nostri progressi sulla via della giustizia, non siamo esenti dal peccato; dal quale peraltro Egli ci purifica intercedendo per noi, quando preghiamo il Padre che è nei cieli che rimetta a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori. Questo sublime gesto del Signore costituisce per noi un grande impegno: quello di confessarci a vicenda le nostre colpe e di pregare gli uni per gli altri, così come Cristo per tutti noi intercede”.
La lavanda dei piedi costituisce dunque un segno visibile anche di quella dignità sacerdotale di cui partecipa ciascun battezzato e, spiega ancora il Doctor Gratiae, di “un ministero di carità e di umiltà” che ci esorta, unitamente a Cristo, a servirlo nel prossimo lavando i piedi gli uni agli altri. Poi “sta a lui esaudirci, purificarci da ogni contaminazione di peccato per Cristo e in Cristo e sciogliere in cielo ciò che noi sciogliamo in terra, cioè i debiti che noi avremo rimesso ai nostri debitori”, nella misura in cui “Egli è colui che prega per noi, che prega in noi e che è pregato da noi. Prega per noi come nostro sacerdote; prega in noi come nostro capo; è pregato da noi come nostro Dio. Riconosciamo dunque in lui la nostra voce e in noi la sua voce”.
Eucarestia e lavanda dei piedi appaiono allora come due risvolti di un medesimo gesto proteso a sottolineare la donazione totale del Figlio dell’uomo al Padre, agli amici e ancor di più ai nemici. La notte dell’Ultima Cena è infatti anche la notte del tradimento di Giuda, del rinnegamento di Pietro e della consegna di Gesù nelle mani di malfattori e peccatori di ogni genere, siano essi sommi sacerdoti, farisei, scribi, soldati romani o gente comune. È la notte tenebrosa degli insulti, dello scherno, delle percosse e del sudore di sangue che nell’orto del Getsemani riga il volto del Redentore e allude tanto al peso del peccato di ciascun uomo per cui ogni goccia è donata, quanto al sangue dei martiri che sarebbe stato versato nel suo Corpo mistico. In questo modo, per dirla ancora con l’Ipponate, “Egli volle farsi simbolo anche di quei tali che nel suo corpo, cioè nella sua Chiesa, avrebbero voluto fare la propria volontà, ma poi si sarebbero sottomessi alla volontà di Dio”.