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Frankenstein, una lucida profezia della modernità

Il libro di Mary Shelley è un monito e una profezia su una scienza che pretende di sostituirsi a Dio. La solitudine che la creatura denuncia è lo spaesamento dell’uomo contemporaneo di fronte a un destino senza Dio.

Cultura 11_03_2018

Duecento anni fa, l’11 marzo 1818, usciva a Londra un libro che ha segnato indelebilmente la cultura occidentale, ispirando anche decine di pellicole cinematografiche, ma che a distanza di due secoli può essere letto anche come una lucida profezia della Modernità e dei suoi incubi scientisti. La famosa storia del mostro e del suo avido creatore è un apologo che si sostanzia in una serrata critica nei confronti di una scienza che non ha alcun rispetto verso la vita e che rischia solamente di procurare orrore e distruzione.

Quella di Frankenstein non è una banale storia gotica. Abbandonata la frusta ambientazione medievale carica di odio anticattolico tipica del genere, l’autrice tesse una trama mossa e vivace con lo scopo di andare al cuore di questioni drammaticamente attuali, senza troppi giri di parole. Del resto il sottotitolo del testo, "Il moderno Prometeo", è già di per sé una dichiarazione di intenti. Victor Frankenstein, il luminare ginevrino che, colto dalla smania del successo, assembla pezzi di cadavere nell’illusione di poter creare la vita, diventa un archetipo della degenerazione della scienza in scientismo.

La sua figura non è quella di un pazzo isolato, ma vuole essere la punta di diamante di una concezione della medicina come sfida alla natura e alle sue leggi, una visione antropologica chiusa alla dimensione del trascendente, un metodo che pretende di esaurire la conoscenza della realtà nei confini del laboratorio.

Il risultato è un fallimento così devastante da compromettere non solo la vita di Frankenstein, ma anche quella dei suoi famigliari e della creatura (significativamente priva di nome). Il prometeico tentativo di giocare a Dio si risolve in un’odiosa pantomima della creazione che porta a generare un orribile aborto, frutto dell’egoismo di uno scienziato privo di scrupoli e non di un generoso atto d’amore. Il mostro si ritrova così costretto a vivere a margine di una società che lo rifiuta, condotto alla violenza dal mancato amore di Frankenstein. Più tardi, quando legge per la prima volta "Il Paradiso perduto" di Milton, trova addirittura una corrispondenza tra la sua condizione e quella del ribelle Lucifero, l’eterno escluso dalla gloria divina: «Ero di indole buona e gentile; il dolore ha fatto di me un demonio».                                                                                                                                                                                   L’origine del Frankenstein risale al 1816, quando la ragazza inglese figlia di uno dei maggiori esponenti dell’Illuminismo britannico si trovava con Shelley a Villa Diodati, la residenza svizzera dell’amico Lord Byron. In una sera piovosa, dedicata come sempre a lunghe conversazioni sui temi del soprannaturale e dei grandi progressi scientifici, Byron lanciò la sfida di creare un racconto dell’orrore, proposta  che venne accolta con entusiasmo dalla compagnia. Mary immaginò dunque la storia di un medico che vuole farsi Dio, e il risultato della sua sperimentazione, che è un mostro. La parola mostro ha due funzioni: la prima è quella oggettiva del “non nome”, di una creatura rifiutata, rigettata, mai amata se non dall'ambizione dello scienziato che  voleva “fare la parte di Dio”; la seconda risiede nel significato della sua etimologia: “moneo”  significa avvertire, ammonire. Questa ragazza di soli ventuno anni dimostrò grande consapevolezza nel descrivere come un certo uso della scienza e della tecnologia può portare l’uomo all’illusione di poter fare “tutto da solo”, di poter ottenere il fuoco della conoscenza degli dei senza pagarne le conseguenze più immediate. 

Il romanzo di Mary Shelley è dunque una sorta di galleria degli specchi in cui emergono i cruciali problemi morali connessi alle più recenti utopie scientifiche. La solitudine che la creatura denuncia è lo spaesamento dell’uomo contemporaneo di fronte a un destino senza Dio, è il desiderio di Mary di sfuggire al materialismo razionalista del padre e, soprattutto, è il grido angosciante che denuncia il nichilismo tecnologico in cui è avviluppata la modernità, un monito che, dopo duecento anni, è più che mai attuale. Mary visse la tragedia della figliolanza negata poiché non conobbe mai la madre, morta pochi giorni dopo la sua nascita, se non attraverso il dolore mai veramente superato da parte di suo padre. Visse due volte anche l'esperienza della maternità mancata, poiché perse i primi due figli.

Il dolore e la mancanza hanno certamente segnato e influenzato la mente sensibilie e creativa di Mary la quale fa dire a Victor, pochi giorni dopo la morte della madre che “quando il trascorrere del tempo ci mostra la realtà del male, allora comincia il vero dolore”. Il dolore delle gioie negate risiede proprio nella mancanza degli affetti più cari, quelli legati al nostro sangue e alla nostra carne. Tutto questo per Mary non può essere riprodotto dalla scienza, si tratta di quel calore umano che  nessun assemblamento di organi e pelle potrà riprodurre. Abbiamo paura della morte perchè essa ci strappa via questi legami e noi siamo disperatamente impotenti di fronte ad essa.  

Mary Shelley pensò la stesura del suo romanzo come grembo e gestazione, pensando, ad esempio, all’allestimento dei  laboratori scientifici del professor Frankenstein. Come una creatura attesa  anche il mostro all'inizio ha bisogno della sua gestazione. E' ironico vedere che tipo di grembo la Shelley scelga: un laboratorio scientifico, ma è una scelta profetica come profetica e ironica è la gestazione: una madre in attesa è in uno stato di grazia e di emozioni profonde; Victor invece si consuma mentalmente e fisicamente, arrivando ad uno stato febbrile nel momento in cui pretende di dare “la luce della vita” alla sua creatura. Qui risiedono le riflessioni di Mary e il suo ammonimento sul delirio di onnipotenza dello scienziato.

In una celebre parodia dei film degli anni ’30, Frankenstein Junior di Mel Brooks, quando il nipote del professore si rende conto che le sue teorie sono realizzabili, urla allucinato: “si può fare!”. Questo è il dramma del nostro tempo, anticipato dalla visionaria ragazza inglese: l’imperativo tecnologico per cui quello che è potenzialmente fattibile si deve fare, senza tenere conto delle implicazioni antropologiche ed etiche, senza tenere conto delle leggi naturali, e tantomeno di quelle divine. L’ombra spaventosa di Frankenstein si proietta sul nostro destino.