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MEDIO ORIENTE

Fragile tregua a Gaza. Chi ha vinto e chi ha perso

Da venerdì 21 maggio è iniziata la nuova tregua fra Israele e Hamas. Da Gaza non partono più razzi, sin dalle 2 del mattino di ieri. Israele ha cessato tutti i suoi raid aerei e bombardamenti di artiglieria sulla Striscia di Gaza. Nonostante i nuovi scontri a Gerusalemme. Chi ha vinto? Militarmente Israele, ma politicamente vince Hamas in Palestina.

Esteri 22_05_2021
Palestinesi festeggiano il cessate-il-fuoco

Da venerdì 21 maggio è iniziata la nuova tregua fra Israele e Hamas. Da Gaza non partono più razzi, sin dalle 2 del mattino di ieri. Israele ha cessato tutti i suoi raid aerei e bombardamenti di artiglieria sulla Striscia di Gaza. Nonostante gli scontri a Gerusalemme, che ieri hanno riguardato ancora la Spianata delle Moschee (luogo di origine di questo come del precedente conflitto di Gaza) la tregua regge. Chi ha vinto?

La risposta non è semplice, non trattandosi di un conflitto convenzionale. Non c’è un chiaro vincitore, dipende dagli obiettivi che sono stati raggiunti. Israele ha colpito circa 2mila obiettivi a Gaza: centri di comando, postazioni di lancio dei razzi di Hamas, tunnel, depositi di armi e munizioni e leader del movimento armato. I morti palestinesi sono stati 230, inclusi 65 bambini. Non si sa quanti di questi siano stati uccisi da “fuoco amico”, considerando che circa il 20% dei razzi di Hamas sono caduti per errore entro il proprio territorio. Dal canto suo, il movimento islamista ha lanciato 4340 razzi, in 11 giorni: quasi quanto quelli lanciati, in 2 mesi, nel conflitto del 2014. Iron Dome, il sistema anti-missile israeliano ha intercettato il 90% degli ordigni nemici. Nel 2014 ne aveva intercettati il 98%: stavolta è andata peggio perché Hamas è stato in grado di sparare salve molto più fitte che hanno saturato il sistema. Il 10% che ha passato lo sbarramento israeliano, oltre a causare danni per l’equivalente di milioni di euro, ha ucciso 13 israeliani, di cui 1 solo militare, 1 bambino, almeno 2 arabi e 2 immigrati tailandesi. Questi sono i freddi numeri del conflitto, che dicono molto poco in sé, a parte la netta sproporzione di forze e di perdite fra le due parti.

Secondo esperti militari israeliani, nonostante le critiche che sta subendo il governo Netanyahu in patria, la battaglia è una vittoria, anche se lo si capirà solo nei prossimi anni. Amos Yadlin, ex ufficiale dell’intelligence militare, dichiara a Wall Street Journal: «In due o tre anni, capiremo che Hamas ha commesso un grave errore e che Israele ha riconquistato la deterrenza». Anche secondo il generale Aharon Haliva, occorre aspettare e vedere quanto durerà la prossima tregua a Gaza: «(se dura) almeno cinque anni, o anche di più, sarebbe un segno di successo», come ha dichiarato a Kan Tv.

Altri militari israeliani sono invece molto più pessimisti nelle loro valutazioni, considerando il carattere asimmetrico del conflitto e i reali obiettivi del movimento armato palestinese: «Questa non è una situazione di vittoria o sconfitta fra noi e Hamas – dichiara sempre al Wall Street Journal il generale Yossi Kuperwasser, ex ufficiale analista dell’intelligence militare – Sul piano militare Hamas è stato sconfitto. Ma da un punto di vista politico, non combatteva Israele, bensì Abu Mazen e i moderati del mondo arabo. E su questo ha vinto, nonostante quel che è avvenuto militarmente». Hasan Ayoub, capo del dipartimento di scienze politiche all’università di Nablus concorda su questo punto: «Hamas, oggi, si trova in una posizione di forza come mai in passato. È al culmine della popolarità fra i palestinesi nei territori occupati e anche all’interno dello stesso Israele, mentre l’Autorità Palestinese ha toccato il fondo».

Non bisogna dimenticare, infatti, che il conflitto è scoppiato proprio dopo il rinvio delle elezioni dell’Autorità Palestinese, quando Abu Mazen ha deciso di non rimettersi in gioco (probabilmente perché pensava di perdere). Hamas ha cavalcato e poi monopolizzato una questione locale: lo sfratto di sei famiglie dal quartiere Sheikh Jarrah di Gerusalemme. Poi ha dominato le manifestazioni di protesta nella Spianata delle Moschee e si è presentato come unico difensore dei palestinesi nel momento in cui è intervenuta la polizia israeliana nel luogo sacro all’islam. Il tutto avveniva in un periodo cruciale: la fine del Ramadan, il giorno di Gerusalemme (festa nazionale israeliana per la riconquista della città del 1967) e il giorno della Nakba, in cui i palestinesi commemorano la cacciata da Israele. Hamas ha sparato razzi fino all’ultimo secondo di conflitto, dimostrando di voler dire l’ultima parola. Il suo leader militare, Mohammed Deif (organizzatore di attentati suicidi in Israele) è ancora vivo, nonostante, pare, l’aviazione israeliana abbia tentato due volte di ucciderlo con raid mirati. Tutti questi fattori rendono Hamas una potenza all’interno dei territori palestinesi. Ed è la prima volta, da decenni, che scoppiano insurrezioni di arabi in Israele. Non di palestinesi propriamente detti, dunque, ma di cittadini israeliani in tutto e per tutto che si identificano (per lingua, religione e cultura) nella causa palestinese.

Canta vittoria anche l’Iran, ovviamente, che ha armato Hamas e ha desiderato questa guerra. Saeed Khatibzadeh, portavoce del ministero degli Esteri la definisce come una “vittoria storica”. La Guardia Rivoluzionaria avverte Israele di attendersi altri “colpi mortali”. Un anno fa, Alì Khamenei, la Guida Suprema, anticipò che l’Iran avesse ormai ribaltato l’equilibrio delle forze nel Medio Oriente. I fitti lanci di razzi, quasi tutti di fabbricazione iraniana, dimostrano che l’ayatollah non avesse tutti i torti: i sette anni trascorsi fra il conflitto di Gaza del 2014 e quello appena concluso sono serviti a rafforzare l’alleato locale.

Risulta una lama a doppio taglio anche il ruolo della comunità internazionale. Joe Biden può vantare il suo primo successo da pacificatore. Ma soprattutto il presidente egiziano Al Sisi, su richiesta di Biden, ha trattato segretamente con Hamas per il cessate-il-fuoco. Hamas ha acconsentito alla richiesta di Al Sisi, che fino a quel momento era un nemico: il suo potere è minacciato dai Fratelli Musulmani (che ha spodestato nel 2013), dunque anche da Hamas, che ne è la branca palestinese. Al Sisi torna protagonista nella regione e sicuramente guadagnerà consensi anche fra gli egiziani che, nonostante il trattato di pace del 1978, restano fortemente anti-sionisti. Biden ha invece fatto pressione sul governo Netanyahu, inducendolo ad accettare la tregua. Da ieri è tornato a promuovere la causa della ricostruzione di Gaza, con aiuti internazionali. Ma sicuramente non in cambio della fine del potere assoluto di Hamas su quel territorio. Così, però, finisce per sdoganare un movimento che gli Usa inseriscono ancora nella lista nera dei terroristi. E può minare la legittimità dell’Autorità Palestinese stessa.

Ad emergere illesi da questa nuova catastrofe sono invece gli Accordi di Abramo, su cui pochi analisti occidentali avrebbero scommesso. Invece da Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Sudan e Marocco non è arrivata alcuna dichiarazione di ostilità a Israele (contrariamente alle guerre precedenti). Anzi, nonostante la sospensione di quasi tutti i voli internazionali in Israele, gli aerei della FlyDubai hanno continuato ad atterrare e ripartire tutti i giorni.