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DOPO IL CASO ALFIE

Eutanasia, Magistero contro Paglia e giuristi cattolici

Le vicende di Charlie, Isaiah e Alfie sono emblematiche degli effetti che la cultura della morte ha prodotto in buona parte degli ordinamenti giuridici europei, ma anche tra i cattolici. Come dimostrano i giudizi di Unione Giuristi Cattolici e monsignor Paglia a proposito di Dat.

Editoriali 19_03_2018
Alfie con i suoi genitori

Le vicende di Charlie, Isaiah e Alfie sono emblematiche degli effetti che la cultura della morte, secondo l’efficace espressione di Giovanni Paolo II in  Evangelium Vitae, ha prodotto in buona parte degli ordinamenti giuridici del continente europeo. E, come noto, vi è una circolarità: la giuridificazione del disprezzo per l’esistenza nelle circostanze più deboli – particolarmente il concepimento, la vita prenatale, lo stato prolungato di malattia a prognosi infausta, la fase terminale – indebolisce la percezione sociale del valore della vita umana.

I tre bambini britannici hanno in comune la condanna a una morte umiliante - mediante la privazione della ventilazione artificiale - per decisione di tribunali inglesi su conforme parere dei medici “curanti”, ma contro
la volontà dei genitori. In tutti i casi, la motivazione consiste in sintesi nel fatto che, difettando prospettive di guarigione dei piccoli pazienti affetti da gravi patologie, la morte sarebbe la soluzione più consona alla loro dignità, dovendosi rigettare l’alternativa della prosecuzione di una vita ritenuta di qualità mediocre e sostenuta a tempo indeterminato con l’alimentazione, l’idratazione e la respirazione artificiali. 

A ben vedere, si tratta in realtà di decisioni omicidiarie, aggravate dal fatto che le vittime sono bambini innocenti e indifesi, uccisi sotto lo sguardo dei genitori. Poiché la giustizia umana vuole la sua parte, è da auspicare che un giorno tali giudici, oltre a essere consegnati alla vergogna della storia, vengano processati per crimini contro l’umanità.
In questi frangenti, è essenziale che la comunità cattolica, che ha l’obbligo morale di custodire e promuovere la legge naturale incisa da Dio nel cuore di ogni uomo, resti compatta. La defezione dalla battaglia per la difesa della vita dal concepimento alla morte naturale non costituisce solo un tradimento della Dottrina, ma anche contribuisce a seminare confusione nella mente dei credenti e degli uomini di buona volontà, e indebolisce l’efficacia dell’impegno e della testimonianza cristiana nella dimensione pubblica.

Una parte dell’opinione pubblica cattolica è rimasta sconcertata dall’intervista del 9 marzo a Tempi con cui mons. Vicenzo Paglia – a titolo apparentemente personale, ma coinvolgendo inevitabilmente l’immagine della
Pontificia Accademia per la Vita di cui è presidente – ha difeso l’operato del tribunale inglese a riguardo di Alfie, in quanto a suo dire finalizzato, non a sopprimere il bambino, ma a porre fine a una condizione di accanimento terapeutico. A tali considerazioni hanno efficacemente e variamente risposto, tra gli altri, sul piano etico-giuridico Tommaso Scandroglio; su quello medico    Renzo Puccetti; su quello esistenziale e del vissuto familiare Chiara Paolini.

La posizione di Paglia è confutabile per la semplice evidenza che, per Alfie, la ventilazione artificiale è un trattamento proporzionato che garantisce la sopravvivenza. Interromperlo costituirebbe nient’altro che un atto di eutanasia commissiva. Alfie, infatti, a quel punto morirebbe, come già Charlie e Isaiah, non a causa della propria patologia, ma per soffocamento. E’ poi inevitabile, dopo la legge n. 219/2017, immaginare cosa potrebbe accadere in Italia in casi analoghi.
Citando un recente comunicato dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani, mons. Paglia ha negato che la legge promulgata rivesta carattere eutanasico. In realtà, l’impostazione eutanasica della legge è plateale, come hanno mostrato autorevoli giuristi (penso per esempio all’analisi del Centro Studi Livatino). Si può apprezzare l’intento di voler depotenziare, in fase interpretativa e applicativa, gli aspetti deteriori del provvedimento​ normativo. Ma, questo, solo dopo una realistica analisi del testo, che, come sa ogni giurista, deve basarsi
sulla lettera e sullo spirito della legge.

Nel suo comunicato, l’Ugci sostiene che la legge n. 219/2017 è attuativa dell’art. 32 della Costituzione “e proprio per questa ragione – si scrive – alcuni   commentatori hanno insistito nel rilevare la sua inutilità ordinamentale”. Come a dire: la legge non potrebbe prevedere nulla di diverso. Ma l’Ugci sembra eludere una questione fondamentale: a quale interpretazione dell’art. 32 si fa riferimento? Il comma 2 sancisce che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”.
Come è noto a chi segue il dibattito, vi sono almeno due posizioni in merito. Quella individualista e radicale, che vi vede il riconoscimento dell’eutanasia (se ho il diritto a non iniziare un trattamento sanitario, si argomenta, ho anche diritto a che mi venga interrotto nonostante qualunque conseguenza). E vi è quella personalista, da sempre preferita dai giuristi cattolici, anche perché più coerente con il testo dell’intero art. 32 Cost.; con la ratio di protezione della salute e a fortiori della vita, che lo pervade; con l’intenzione dei padri costituenti, che lo redassero con in mente gli orrori delle sperimentazioni umane forzate nei campi di concentramento e non certo con l’intenzione di rendere disponibile il diritto alla vita.

Occorre dunque chiedersi: la legge n. 219/2017 a quale delle due concezioni si ispira? Se alla prima, l’Ugci dovrebbe aspramente contestarla. Se alla seconda, ciò andrebbe dimostrato commentando il testo. Ma l’Ugci non lo fa. In vero, il testo è tutto nel senso dell’autodeterminazione su se stessi a costo della morte (v. art. 1, c.5); obbliga il medico a cooperare alle scelte di morte del paziente (art. 1, c.6); e può persino implicare l’uccisione di terzi prescindendo dalla loro volontà (art. 3, cc. 2 e 3). 
A tal proposito, il dettato normativo introduce delle sicure novità nel nostro ordinamento. Dispone a chiare lettere che il paziente, a prescindere dalla gravità delle sue condizioni, può rifiutare trattamenti sanitari, idratazione e alimentazione, anche preventivamente mediante le Dat, che ora sono vincolanti (art. 4). Può interromperli esprimendo attualmente tale volontà nonostante eventuali conseguenze letali, costringendo il medico non solo all’eutanasia omissiva (astenendosi, cioè, da atti che la sua professione richiederebbe di compiere nell’interesse della salute del paziente in carico), ma potenzialmente anche commissiva (qualora l’interruzione di un trattamento implichi un comportamento attivo, come togliere una flebo contenente un
farmaco salvavita). Inoltre, la legge n. 219/2017 consente la soppressione di minorenni e incapaci, quando la decisione di rifiuto o interruzione dei trattamenti, anche vitali, provenga dai legali rappresentanti (a meno che il medico non si opponga e il giudice, eventualmente investito di un ricorso, dia ragione al medico: art. 3, c.5).

I casi in cui il medico può (se vuole) non cooperare sono eccezionali (art. 1, c.6): in ogni caso, l’esito letale per il paziente non è tra questi, perché, anzi, rientra espressamente tra i suoi diritti.
Secondo l’Ugci, tuttavia, “la pretesa di dare alla legge una lettura eutanasica è arbitraria e contraria allo spirito della stessa”. Il che, alla luce di quanto detto, può solo significare due cose: o che abbiamo letto testi diversi della legge n. 219/2017, o che abbiamo concezioni diverse di ciò che è eutanasia. Personalmente, continuo sul punto ad attenermi al Magistero della Chiesa cattolica. 
* Presidente dell’Unione Giuristi Cattolici di Pavia “Beato Contardo Ferrini”