Eutanasia della speranza: il “caso Shanti” svela l’abisso dei diritti civili
Sopravvissuta a un attentato dell’Isis, la 23enne fiamminga Shanti De Corte ne è rimasta traumatizzata fino a chiedere l’eutanasia, con il consenso dei genitori. C’erano alternative, secondo un neurologo. Ma senza prospettiva ultraterrena, si finisce per rifiutare la realtà, fatta anche di drammi, e di fuggire in qualsiasi modo, compresa la morte.
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Lo scorso 7 maggio Shanti De Corte, una ragazza fiamminga di 23 anni, è morta per eutanasia circondata dai genitori che hanno assecondato la sua scelta. La notizia si è diffusa ora, negli stessi giorni in cui persino la Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha avallato l’eutanasia per le persone depresse, ha dovuto però lamentare il lassismo del Belgio riguardo al controllo a posteriori delle procedure eutanasiche e ai conflitti di interesse tra chi dovrebbe controllare e gli attivisti della “dolce morte”.
Shanti ha chiesto di morire non per una malattia fisica incurabile, ma per un male più nascosto, che la divorava dall’interno, esploso dopo il tragico attentato dell’Isis all’aeroporto di Bruxelles avvenuto il 22 marzo 2016, in cui ha perso anche dei compagni di scuola, oltre allo shock dell’evento in sé. La ragazza era sopravvissuta, ma – già provata da problemi pregressi, sempre di natura psicologica – da allora non era più riuscita a riprendersi.
Da allora Shanti ha vissuto un calvario di sei anni, tra ricoveri, farmaci e persino un tentativo di violenza subito in ospedale. Nel 2020 ha cercato di togliersi la vita da sé stessa. Si sentiva «come un fantasma che non sente più niente». Sua madre ha raccontato che quella «era una battaglia che non poteva vincere. Era talmente limitata dalla paura che non poteva più fare ciò che voleva. Viveva in costante paura e aveva perso completamente il senso di sicurezza. Ogni volta che Shanti usciva, era sempre in allerta. Non sono in pericolo? Potrebbe accadere qualcosa?».
Fino alla decisione estrema: «Dopo un grave tentativo di suicidio, era finita al pronto soccorso. È stata la prima volta che mi ha chiesto: perché non posso morire?». La mamma le ha risposto che non voleva perderla ma che in qualche modo capiva la sua richiesta. Esserci e sostenerla «è l'unica cosa che puoi fare come madre», ha confidato, «continui a sperare che funzioni, ma allo stesso tempo ho sentito fin dall'inizio che questo è ciò che lei voleva davvero». Infine, la decisione di Shanti è stata fatta propria anche da lei: «Mi sono resa conto che Shanti avrebbe dovuto passare gli ultimi anni sopravvivendo, e che per lei non era possibile continuare a vivere in quel modo».
Decisione prematura, invece, secondo il neurologo Paul Deltenre, della clinica Brugmann di Bruxelles, che ha dato voce alle perplessità sul lato medico ed etico suscitate dalla vicenda e, in generale, dalla permissiva legge belga sull’eutanasia. Mentre la Commissione federale di controllo e valutazione dell’eutanasia si trincera dietro la correttezza formale, dichiarando che «la ragazza era in tale stato di sofferenza psichica che la sua richiesta logicamente è stata accolta», secondo il neurologo Deltenre non si sarebbe dovuto procedere, poiché non era affatto l’unica strada. Su sua segnalazione, la magistratura di Anversa ha aperto un’inchiesta.
Se la madre si era persuasa che il suicidio fosse l’unica strada percorribile, per Deltenre c’erano delle alternative: «non c'era nulla da perdere nell'accettare l'offerta di cura fatta dall'équipe terapeutica di Ostend». Deltenre si riferisce a una terapeuta, Nathalie Neyrolles, che si era offerta di assistere la ragazza e aveva chiesto di incontrarla a fine aprile: «Sono stata informata che Shanti soffriva di traumi complessi e che l'unica soluzione che le era stata offerta finora era quella di accettare la sua richiesta di eutanasia. Senza escludere a priori questa soluzione, la mia esperienza in vittimologia mi suscita alcune domande». Offerta rifiutata dalla psichiatra che aveva in cura Shanti e – tramite lei – dalla stessa paziente.
Il caso di Shanti traduce in pratica la “normalizzazione” dell’eutanasia, un tempo “sdoganata” per i casi limite di malattie terminali e/o gravemente invalidanti sul piano fisico. Se qualcuno osava dire che, prima o poi, sarebbe arrivata anche per le persone depresse, veniva accusato di esagerare, nella migliore delle ipotesi. E invece eccola applicata anche per traumi psicologici – certamente gravi e dolorosi – per i quali forse si poteva trovare una via d’uscita. Un domani – e non scherziamo affatto – basteranno la perdita del lavoro o una delusione amorosa per poterla richiedere. E chi potrà mai interpretare oggettivamente se il paziente è «senza speranza» o «la sua sofferenza – è il criterio previsto dalla legge belga – sul piano fisico o psichico è persistente e insopportabile»? Shanti ha vissuto cose terribili, una sorta di “fine del mondo”; allo stesso modo vive una “fine del mondo” chi perde prematuramente il coniuge o un figlio. Date le premesse, il piano si inclina pericolosamente...
Se la “resa” di Shanti era in qualche modo prevedibile, perché anche sua madre ha smesso di combattere? La resa dei genitori è anch’essa una “normalizzazione” inquietante. «È quello che lei voleva davvero», ha detto la mamma. Possibile che si faccia di tutto per distogliere un figlio da vie sbagliate (per esempio la tossicodipendenza) e nulla per un figlio che sceglie la morte? Sorprende un po’ meno forse alla luce di un’altra “normalizzazione” del nostro tempo: se al giorno d’oggi è concessa a una madre la scelta (dolorosa per lei stessa ma considerata indiscutibile) di sopprimere il bambino nel grembo, ciò che vale in gravidanza è logico che debba valere anche dopo.
Di fronte a una ragazza che, nel pieno della vita, rinuncia a vivere basterebbe quell’istinto di sopravvivenza (nostra e altrui) che ci spinge a soccorrere un ferito o a dissuadere uno sconosciuto che vuole gettarsi da un ponte. Lo farebbe chiunque a prescindere da una visione religiosa. Ma il venir meno di una prospettiva ultraterrena può favorire questa resa, perché, si pensa, in fondo dopo non c’è nulla: né un luogo di gioia in cui le nostre lacrime saranno definitivamente asciugate e le sofferenze acquisteranno un senso; né un luogo di perdizione, in cui chi fino all’ultimo ha rifiutato Dio (o la vita stessa) andrà incontro al suo destino. E allora, se le cose si fanno troppo difficili, tanto meglio calare il sipario sul nulla.
Benché considerata “retrograda”, la prospettiva religiosa era un incentivo a rialzarsi e vivere. Non era certo facile l’esistenza in passato, eppure «il fenomeno era pressoché sconosciuto. Ma erano i secoli cristianissimi e la Chiesa faceva buona guardia», così scriveva Rino Cammilleri su queste pagine. La faceva indicando il Cielo, ma anche con la predicazione sui Novissimi (oggi rarefatta e anche un po’ annacquata), nonché con alcune misure “medicinali” come la negazione delle esequie al suicida: non per punire il morto (che veniva suffragato in altro modo, coltivando fino all’ultimo la speranza estrema della salvezza per chiunque), ma per ammonire i vivi. Se invece l’unica prospettiva rimasta è un pallido aldilà da manuale di educazione civica, insieme al senso del peccato si affievolisce pure il senso della vita, e viene meno anche un forte movente per provare a farcela nei momenti più duri.
L’ultimo aspetto chiamato in causa dalla povera Shanti è un atteggiamento tipico del nostro tempo: il rifiuto della realtà, che i nostri avi affrontavano in mezzo a condizioni materialmente molto più disagiate (comprese guerre e carestie), ma a noi va bene finché mostra solo il suo lato positivo. Quando ci sottopone a prove troppo dure, e non possiamo cambiarla, non ci resta che evadere dalla realtà stessa. Talvolta, purtroppo, anche fisicamente.