Davos, il centralismo (non) democratico mondiale
Il giro mentale dei partecipanti a Davos è quindi sempre lo stesso: che cosa possiamo fare noi élite mondiali per pianificare un futuro migliore per il mondo? La prospettiva è il rovesciamento della sussidiarietà in una visione distopica fondata su un’antropologia distorta. Unico assente, in dissenso, è Elon Musk, possibile polo alternativo.
Nel recente incontro di Davos, il primo in presenza dalla crisi sanitaria CoViD-19, si è parlato del conflitto in Ucraina e della connessa crisi alimentare ed energetica, del futuro della globalizzazione, di economia, lavoro e impresa, delle divise digitali delle Banche centrali, della tecnologia e del metaverso, delle prossime minacce alla salute, di ambiente e cambiamento climatico, e altro ancora.
La grande novità rispetto agli incontri passati è data, ovviamente, dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, e dalle sue pesanti ricadute sul commercio mondiale, sulla globalizzazione e sulla crisi energetica e alimentare: un evento che non si poteva prevedere nell’incontro dello scorso anno, al quale aveva partecipato come speaker il Presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin, che quest’anno è stato sostituito dal Presidente ucraino, Volodymyr Zelens’kyj. L’esplosione di un conflitto ad alta intensità nel cuore dell’Europa è un evento di portata storica: ennesima conferma che il futuro è imprevedibile, e quindi ancora meno si dovrebbe credere che sia pianificabile, una lezione che però il Forum di Davos non sembra avere ben appreso, visto il pervicace impegno di “cambiare il mondo”, in meglio ovviamente.
Al netto degli effetti geopolitici e geoeconomici della guerra in Ucraina, ancora di difficile stima, il Forum di Davos 2022 è rimasto focalizzato sui soliti grandi obiettivi. La “narrazione” dominante è che il mondo pre-CoViD-19 è definitivamente tramontato e quindi non torneremo più alla “normalità” pre-pandemica. Siamo entrati in uno “stato di eccezione” permanente in cui si passa, senza soluzione di continuità, dalla crisi sanitaria a quella climatica, dalla crisi militare a quella energetica-alimentare. Le crisi si sa, sono il terreno ideale per proseguire con l’«iniziativa» del Great Reset dei sistemi sociali, politici ed economici mondiali, con un’alleanza tra i grandi gruppi industriali e finanziari e i pubblici poteri – Stati, Banche centrali, comunità sovranazionale – per «ripensare, reimmaginare e resettare il nostro mondo», per usare la terminologia del Prof. Klaus Schwab, Fondatore ed Executive Chairman del World Economic Forum. Le grandi sfide globali richiedono soluzioni globali, nella prospettiva di una «pianificazione democratica» e uno «statalismo climatico», concertato ai livelli più alti, statali e sovranazionali: un “socialismo liberale”, insomma, un po’ gnostico e un po’ fabiano, che intende mantenere le sovrastrutture liberal-democratiche, o social-democratiche che siano, ridotte però a gusci vuoti, mentre le risorse e le decisioni importanti sono destinate a essere sempre più accentrate presso “tecnici” e “competenti”, in “cabine di regìa” sempre più lontane.
Meno proprietà privata, meno libertà e meno privacy, più tasse, in cambio della promessa di maggiore sicurezza e salute garantite dall’alto – nella forma di maggiori sussidi pubblici e di “reddito universale di cittadinanza” – nel nuovo “capitalismo ambientale” dell’era post-pandemica, «sostenibile, resiliente e inclusivo», come recita la narrazione dominante. I residui spazi di libertà economica – che avevano visto uno spiraglio con le politiche di Reagan e della Thatcher negli anni ’80, definite in modo spregiativo come “neo-liberiste” – devono lasciare il posto allo «stakeholder capitalism del XXI° secolo», invocato da Schwab, nella prospettiva della Quarta Rivoluzione industriale. La rivoluzione digitale in atto, con un’avanzata esponenziale delle ICT (Information and Communication Technologies), aprirà prospettive inedite, consentendo il tracciamento in tempo reale di cose, denaro e persone, in un sistema di controllo sociale sempre più pervasivo.
Tra gli interventi al WEF 2022 attiro l’attenzione su quelli dei magnati-filantropi Bill Gates e George Soros. Gates ha parlato delle prossime epidemie – quasi si trattasse di nuovo rilasci già pianificati del sistema operativo Windows – mentre Soros ha invocato l’urgenza di sconfiggere Putin in tempi brevi per potere tornare a gestire la vera emergenza dei nostri tempi, che sarebbe quella climatica, paventando il rischio di essere andati già oltre il punto di non ritorno con la possibile fine della civiltà per come la conosciamo. Sul tema della guerra si evidenzia la posizione differente dell’ex-segretario di Stato statunitense, Henry Kissinger, il quale ha richiamato in varie sedi, con molto pragmatismo e meno idealismo, alla necessità di porre fine al conflitto in tempi brevi con un accordo che preveda delle concessioni da entrambe le parti, al fine di evitare scenari catastrofici per gli attori coinvolti, Ucraina e Russia in primis, ma anche per il resto d’Europa e del mondo. Al di là delle valutazioni di merito che si possono fare, il fil rouge dei vari interventi che si sono succeduti a Davos è sempre quello dell’emergenza globale che richiede un multilateralismo che superi il livello dei singoli Stati nazionali. Sul fronte sanitario, ad esempio, la prospettiva è quella di un ruolo crescente dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, che potrebbe arrivare ad imporre le proprie decisioni su scala planetaria, “saltando” le decisioni degli Stati nazionali.
Il giro mentale dei partecipanti a Davos è quindi sempre lo stesso: che cosa possiamo fare noi élite mondiali per pianificare un futuro migliore per il mondo? La prospettiva è il rovesciamento della sussidiarietà in una visione distopica fondata su un’antropologia distorta e conseguentemente su una sociologia “rovesciata”: una visone atomistica e materialistica, centralistica e dirigistica, dove i “migliori” vorrebbero guidare dal centro e dall’alto, nel nome di un globalismo ideologico. L’approccio ideologico di Davos è inevitabilmente destinato a scontrarsi con il reale: le nuove politiche economiche post-pandemiche provocheranno però seri danni strada facendo, soprattutto in termini di restrizioni alla proprietà privata, alla libertà e alla privacy. Ne abbiamo purtroppo già fatto esperienza con le politiche sanitarie improntate ideologicamente alla strategia CoViD-zero negli ultimi due anni, e lo stiamo subendo con le dinamiche inflazionistiche fuori controllo, anch’esse causate da errate scelte monetarie e fiscali, non soltanto dalla guerra in atto.
Tra i temi affrontati a Davos anche le CBDC (Central Bank Digital Currencies), le Divise Centrali delle Banche Centrali, indicate come strategiche da Kristalina Georgieva, direttrice operativa del Fondo Monetario Internazionale, mentre ha invece snobbato le criptovalute emesse dai privati in modo decentrato, affermando che non possono essere considerate “denaro” perché non sono garantite da una pubblica autorità e non costituiscono una “riserva di valore” affidabile. La digitalizzazione completa dei pagamenti con le CBDC apre prospettive pericolose sia in termini di “profilazione” sia in termini di possibili limitazioni, o addirittura di blocchi al loro utilizzo, che potrebbero essere decisi e attuati in tempo reale dalla Banca centrale nei confronti di soggetti ritenuti non sufficientemente rispettosi delle “regole” imposte politicamente. La Cina, non a caso, è all’avanguardia mondiale nello sviluppo dello yuan digitale, e tale successo è stato indicato con ammirazione dalla Georgieva. Mentre in un’economia libera il “denaro” dovrebbe appartenere alla res pubblica, nella prospettiva indicata si impone invece una visione “politica” del denaro, emesso in regime di monopolio dalle varie Banche centrali, già ora manipolabile a piacimento nella logica fiat, e con l’evoluzione digitale in modo ancora più efficace, soprattutto se si accompagnerà, come auspicato, alla morte del contante.
Si segnala, tra gli assenti notabili, Elon Musk, patron di Tesla nonché uomo più ricco del mondo, che ha preso pubblicamente le distanze dal Partito democratico statunitense e ha iniziato a condannare in più sedi l’emergenza demografica in atto, in una prospettiva diametralmente opposta a quella dell’Agenda ONU 2030 fatta propria dal Forum di Davos. Nel dicembre 2021, ad esempio, Musk ha dichiarato al Wall Street Journal’s CEO Council Summit: «Uno dei rischi più grandi per la civiltà è il basso tasso demografico e il suo rapido declino. Sono in tantissimi, comprese le persone intelligenti, che pensano che siamo in troppi nel mondo e che la crescita della popolazione stia andando fuori controllo. È esattamente l’opposto. Per favore guardate i dati. Se le persone non faranno più figli, la civiltà sarà destinata a collassare. Prestate attenzione alle mie parole». In un suo recente commento su twitter ha poi commentato l’inverno demografico in Italia con parole lapidarie: «l’Italia non avrà più una popolazione se queste tendenze continueranno».
A chi critica Musk cercando di screditarlo sul piano personale, occorre ricordare, alla scuola di San Tommaso d’Aquino (1225-1274), che «omne verum, a quocumque dicatur, a Spiritu Sancto est» (S. Th., I-II, q.109, a.1, ad 1). Non stupisce che Musk non sia stato invitato a Davos, o se è stato invitato non stupisce che abbia declinato l’invito. Tra i partner del WEF, non compare la sua azienda, la Tesla, un’eccezione che si nota visto che sono presenti tutti quelli che contano nel mondo: nel settore automobilistico Chevron, Honda, Hyundai, Mitsubishi, Toyota, Volkswagen e Volvo; nel settore finanziario ABN Amro, Allianz, Axa, Banco Santander, Bank of America, Bank of China, Barclays, BBVA, BlackRock, Bloomberg, CreditSuisse, Deutsche Bank, Generali, Goldman Sachs, Intesa Sanpaolo, Invest Saudi, Islamic Development Bank, Morgan Stanley, Nomura Pictet Group, Prudential, Qatar Development Bank, UBS, Unipol; nel comparto energetico British Petroleum, Chevron, China Energy Investment, Enel, Eni, Petrobras, Saipem, Saudi Aramco, Shell, Snam; nel comparto farmaceutico AstraZeneca, Bayer, Johnson&Johnson, Moderna, Novartis, Pfizer, Sanofi; le grandi società di consulenza Accenture, Ernst&Young, Deloitte, KPMG, McKinsey, PricewaterhouseCoopers; importanti fondazioni come Bill&Melinda Gates Foundation e Open Society Foundations; i colossi mondiali Amazon, Apple, Google, Meta (Facebook), Microsoft; altri big player come Cisco, Coca-Cola, General Electric, Hewlett-Packard, IBM, Intel, L’Oréal, Mastercard, Nestlé, New York Times, Nokia, PayPal, Procter&Gamble, Siemens, Sony, STM, SWIFT, Telefonica, TIME, Unilever, Visa, Walmart, Western Union, Xiaomi, Yahoo…
Potrei continuare con altri grandi nomi ma credo che l’elenco sia sufficiente per apprezzare l’ampiezza e la portata della rete soggiacente al World Economic Forum di Davos: è sicuramente un grande e potentissimo club, decisamente esclusivo; occorre pagare cifre importanti per farne parte e chi paga, in genere, si attende poi qualcosa in cambio. Ci troviamo di fronte, con ogni evidenza, non a un “capitalismo selvaggio” o “turbo-capitalismo”, come ancora molti lamentano mancando il segno, bensì a un crony capitalism – un capitalismo clientelare – a livello mondiale, concertato tra grande capitale e poteri pubblici: non si tratta di “neo-liberismo” ma di “neo-corporativismo”, con una continua erosione dei residui spazi di libertà economica per quei privati, che numericamente sono la quasi totalità, che non fanno parte del club. D’altronde, ce l’avevano detto con trasparenza, come possiamo vedere nel famoso video, comparso lo scorso anno sul sito del WEF, contenente 8 previsioni per il mondo nel 2030: «Non possiederai nulla. E sarai felice […] I valori occidentali saranno stati testati fino al punto di rottura».
Ora, il fatto che nel mondo di Davos manchi Tesla – che è stata stranamente valutata con un basso scoring nell’ambito delle valutazioni ESG da parte di S&P Global, escludendola quindi dal benchmark dei titoli sostenibili, e sulla quale Bill Gates sta speculando al ribasso – e che contemporaneamente Elon Musk stia assumendo posizioni contrarie a quelle dell’establishment sulla demografia, uno dei punti chiave dello “sviluppo sostenibile” a trazione ONU, pare degno di nota: chissà se tra gli eventi imprevedibili il futuro non ci riserverà un’alleanza inedita nel Partito repubblicano statunitense tra Donald Trump ed Elon Musk, con twitter non più controllato dal mondo liberal per fare propaganda unilaterale e censurare come fake news notizie non gradite. Se così fosse, credo che la novità a Davos non sarebbe accolta con entusiasmo.