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COMUNISMO CINESE

Cina, da rivolta contro il lockdown a ribellione contro Xi Jinping

In Cina la rivolta contro i lockdown dilaga in tutto il Paese, dopo un incendio a Urumqi che ha provocato dieci morti, una strage aggravata dalle misure Zero Covid che hanno impedito ai soccorsi di intervenire. Ora i manifestanti non attaccano solo le autorità locali, ma il regime stesso. La protesta interroga anche le nostre coscienze. 

Esteri 29_11_2022
Un arresto a Shanghai

Grosso guaio in Cina per il Partito Comunista, proprio all’indomani del congresso che ha consacrato Xi Jinping presidente per un terzo mandato senza precedenti. Nel fine settimana è scoppiata una rivolta contro i continui lockdown. E stavolta non è solo locale, ma nazionale. Non solo è diffusa nelle maggiori città, capitale compresa, ma si sta organizzando dietro a slogan e richieste al governo e non più solo alle autorità locali (che finora sono sempre state sacrificate in cambio di ordine).

Molte sono le cause della rivolta. Come avevamo già scritto su queste colonne, a metà ottobre era insorto un quartiere povero di Canton. A fine ottobre era stata la volta degli operai della Foxconn di Zhengzhou, fuggiti dalla loro fabbrica trasformata in prigione in un mese di quarantena. Infine la fuga era diventata rivolta, quando si sono ribellati anche gli operai neo-assunti. Ad alimentare lo scontento ha sicuramente contribuito anche il Mondiale del Qatar. La Cina gioca con la nazionale, i cinesi sono sempre più patiti di calcio e seguono le dirette in Tv. La televisione di Stato, la CCTV, adottando la tecnica del ritardo di un minuto nella trasmissione, come durante le Olimpiadi, ha censurato accuratamente tutte le scene di tifosi assembrati e senza mascherina, conservando solo le scene delle squadre in campo e delle panchine. Nonostante tutto, già dal giorno dell'inaugurazione, scene di feste e di persone felici e senza mascherina sono comunque trapelate, spingendo molti cinesi a chiedersi, sui social network, se il Qatar fosse su un altro pianeta.

La protesta, comunque, è dilagata ed è diventata nazionale, dopo un incendio a Urumqi, capitale della regione autonoma dello Xinjiang. Abitata dalla minoranza degli uiguri, la più perseguitata in Cina, la regione è già sotto un regime di sorveglianza speciale e il lockdown è più duro che altrove. Da agosto, Urumqi è chiusa. Un incendio scoppiato ai piani alti di un edificio ha provocato la morte di dieci persone. Due le possibili cause che hanno impedito alle vittime di salvarsi: l’edificio poteva essere sigillato dall’esterno, come accade nei periodi di lockdown (ma le autorità locali lo negano) e i vigili del fuoco sono intervenuti con grande ritardo, a causa del posti di blocco istituiti proprio per implementare la politica Zero Covid. Questa strage, che si poteva evitare, è stata la proverbiale ultima goccia che ha fatto traboccare il vaso.

Partita dall’incendio di Urumqi, la protesta si è diffusa come un incendio estivo in una cinquantina di campus universitari e in una decina di città fra cui Pechino, Wuhan, Chengdu, Nanchino, Zhengzhou e Canton. A Shanghai sono avvenute le manifestazioni simbolicamente più forti. La folla ha chiesto le dimissioni di Xi Jinping. In Cina è un reato, comporta pene carcerarie severe. Il giornalista della Bbc Edward Lawrence è stato arrestato mentre documentava la protesta. È stato preso a calci e pugni dagli agenti anti-sommossa, prima di essere arrestato. Ora è scarcerato, ma sicuramente avvertito.

A Pechino, nella notte fra domenica e lunedì, la polizia ha fermato centinaia di persone mentre marciavano su Piazza Tienanmen scandendo gli slogan “Vogliamo diritti universali, libertà, democrazia, abbasso la dittatura e il culto della personalità!”. Almeno per una notte è parso di rivivere il momento dell’unica rivolta democratica, quella del 1989. A Hong Kong, alcune decine di giovani si sono riunite in centro, hanno scandito “Niente paura, niente oblio, niente perdono” e hanno sventolato fogli di carta bianchi.

I fogli di carta bianchi sono diventati il simbolo della nuova protesta. Ogni slogan è vietato, la censura è capillare, per cui si protesta senza scrivere nulla, per impedire (almeno formalmente) di essere arrestati per qualcosa di scritto. Ma la gente parla, urla slogan e viene ripresa da milioni di telecamere, su cui sono installati software di riconoscimento facciale. Possiamo star certi che, mentre questo pezzo va online, molti dei manifestanti sono già stati individuati e arrestati. Molti di loro, semplicemente, spariranno nel nulla.

Ieri, le autorità cinesi hanno risposto con un massiccio dispiegamento di forze dell’ordine, in tutte le città coinvolte nelle manifestazioni. A Pechino la polizia si è concentrata sul ponte Sitong, dove a ottobre un manifestante aveva srotolato due manifesti con scritte contro le vessazioni della politica Zero Covid, il Partito comunista e lo stesso Xi. Quegli slogan, benché censurati con gran cura dai media e sui social media cinesi, si sono comunque diffusi: sono gli stessi scanditi dai manifestanti di Shanghai. Nella megalopoli portuale, in compenso lunedì la polizia ha chiuso la via Wulumuqi, teatro delle manifestazioni. La polizia agisce soprattutto preventivamente, con controlli a tappeto sui cittadini che potrebbero partecipare a nuovi eventi. I sospetti sono stati arrestati fra domenica e lunedì. Chiunque sia nei paraggi dei possibili luoghi di assembramento delle proteste subisce il controllo del cellulare, per scoprire se ha installato app di messaggistica occidentali (non controllate dal regime) e se ha foto delle manifestazioni del fine settimana.

I cittadini cinesi che protestano sono soprattutto giovani, soprattutto studenti, esattamente come era in Piazza Tienanmen più di trent’anni fa. Dimostrano un coraggio non comune: l’arresto è certo, la loro stessa vita è in pericolo. La causa è diversa, ma il fine della protesta è lo stesso del 1989: chiedere più rispetto dal regime, quando non la sua democratizzazione. L’esito ora appare scontato, ma sorprese sono possibili, dopo tre anni di vera dittatura sanitaria (non metaforica, ma reale).

Le proteste cinesi interrogano anche le nostre coscienze: il periodo di lockdown (più breve e più blando rispetto alle misure di Pechino) che abbiamo vissuto nei due anni scorsi era comunque copiato dal modello cinese. La maggioranza degli italiani lo ha accettato con obbedienza e zelo, arrivando alla delazione, al controllo dei vicini di casa, alle denunce a mezzo stampa di festicciole in cortile e runner solitari che violavano il blocco. La polizia ha inseguito con i droni chi passeggiava da solo, o chi prendeva il sole sulla spiaggia, perché nessuno desse “un cattivo esempio”. La Cina non ha fatto altro che applicare questo modello fino alle sue estreme conseguenze e per un anno in più rispetto all’Italia. Ma la sostanza è identica. Quanti di quei giornalisti che, in questi giorni, scrivono della libertà repressa in Cina, due anni fa predicavano la repressione in Italia? Quanti, di fronte alle proteste contro i lockdown in Occidente, soprattutto negli Usa, in Australia e in Canada, invocavano l’uso della forza contro manifestanti “nemici della scienza”? E quanti, di fronte alle immagini dei cinesi che si ribellano con un foglio bianco in mano, si saranno resi conto del tipo di repressione che hanno invocato?