"Blasfema" denunciata in Italia: in carcere in Marocco
Una ragazza italiana di famiglia marocchina, tornando nel Paese dei genitori, è stata arrestata, processata e condannata al carcere per blasfemia. Nel 2019 aveva condiviso un post su Facebook (subito cancellato) con un gioco di parole sulla sura 108 del Corano. Era stata denunciata, a sua insaputa, da un'associazione islamica italiana.
Una cittadina italio-marocchina di 23 anni è stata condannata il 29 giugno dal tribunale di Marrakech a tre anni e mezzo di carcere e a una multa di circa 4.800 euro per aver violato “la sacralità della religione del popolo marocchino”. I giudici l’hanno riconosciuta colpevole del reato di blasfemia perché nell’aprile del 2019 su Facebook ha condiviso un post in cui la sura 108 del Corano “Al-Kawthar” (L’Abbondanza) era stata ribattezzata “Sura Al-Whisky".
Fatima (un nome di fantasia perché il padre ha chiesto che l’identità di sua figlia non venga divulgata) è nata a Vimercate da genitori marocchini. Adesso vive a Marsiglia dove frequenta l’università. Senza sapere di essere oggetto di un mandato di arresto su scala nazionale, emesso in seguito alla denuncia di una associazione, il 20 giugno è partita per il Marocco con l’intenzione di trascorrere le vacanze con i parenti e celebrare con loro Id al Adha, la Festa del Sacrificio, che quest’anno inizierà la sera del 19 luglio. Quando è atterrata all’aeroporto di Marrakech, dove ha presentato il passaporto marocchino, è stata fermata dalla polizia e messa agli arresti domiciliari in attesa del processo che si è concluso con una sentenza di condanna in base all’articolo 267 del Codice penale marocchino che prevede da sei mesi a due anni di carcere per “chi offende la religione islamica”, pena che sale a cinque anni se l’atto è commesso in pubblico “con mezzi elettronici inclusi”.
La prima reazione alla scoperta che in Marocco un cittadino italiano può essere arrestato e punito per un post irriverente nei confronti dell’islam condiviso su Facebook è stata di incredulità, al punto da supporre che si trattasse di una notizia infondata. Qualcuno si è meravigliato del fatto stesso che in Marocco la blasfemia sia un reato perseguito. Re Mohammed VI, l’attuale sovrano, è stimato per aver emanato nel 2004 la Mudawana, il nuovo codice di famiglia che ha introdotto importanti innovazioni nei rapporti coniugali e famigliari, nel 2011 una nuova costituzione e in generale per i concreti passi avanti nella tutela dei diritti umani, civili e politici dei suoi sudditi.
Quando si tratta di blasfemia, il pensiero va piuttosto al Pakistan, alla sua cosiddetta “legge nera” che prevede punizioni fino all’ergastolo e alla pena capitale per chi offende l’islam e il profeta Maometto e dove una parte della popolazione pretenderebbe la morte per i giudici che osano assolvere degli imputati e per gli avvocati che li difendono. Di recente il Consiglio degli ordini forensi d’Europa ha scritto al primo ministro pakistano Imran Khan per chiedergli di proteggere Saiful Malook, l’avvocato che, per aver difeso persone accusate di blasfemia, ha ricevuto ripetute minacce di morte da gruppi islamisti, costretto persino a rifugiarsi presso l’ambasciata di Francia a Islamabad e poi a fuggire in Olanda all’epoca in cui era il legale di Asia Bibi.
Ma i paesi che puniscono in misura più o meno severa la blasfemia sono 84 – tra i più rigorosi, l’Iran, l’Egitto, la Mauritania… – e comprendono il Marocco dove il più recente e rilevante caso di blasfemia riguarda un noto attore, Rafik Boubker, arrestato nel maggio del 2020 con l’accusa di avere, in un video diffuso sulle reti social, insultato degli imam, invitato a fare con “whiskey e vodka” le abluzioni religiose prescritte e lodato i benefici dell’alcool “per entrare in contatto con Dio”. Ma l’attore è libero su cauzione, il processo a suo carico, più volte rimandato, non ha ancora avuto inizio mentre quello di Fatima, per un reato che al confronto sembrerebbe di gran lunga meno grave, si è svolto e concluso a pochi giorni dall’arresto.
L’ambasciata italiana in Marocco sta seguendo il caso che l’ambasciatore Armando Barucco ha definito “particolarmente delicato”. È già stato chiesto di poter svolgere una visita consolare alla detenuta nel carcere di Marrakech. Alcuni parlamentari si sono attivati per sollecitare l’attenzione e l’intervento del governo italiano e se necessario dell’Unione Europea.
Nel frattempo qualcuno si è giustamente domandato come abbia potuto un'associazione marocchina venire a conoscenza del fatto che una ragazza italiana ha condiviso su Facebook un post “deplorevole” (tra l’altro subito cancellato, a quanto risulta). Le reti sociali in effetti hanno assunto un ruolo rilevante nel controllo e nella condanna di affermazioni, immagini e comportamenti blasfemi. Un anno fa, ad esempio, il tribunale di primo grado di Tunisi ha condannato Emna Chargui, 27 anni, a sei mesi di carcere perché giudicata colpevole di aver condiviso sulle reti social un testo “offensivo nel confronti dell’islam” intitolato “Sura Corona”. Ma Emna Chargui era una blogger, i suoi post erano seguiti da chissà quanti follower, mentre Fatima è solo una studentessa che, come tante persone, usa i social. Difficilmente poteva entrare nel raggio di osservazione di una associazione marocchina.
Difatti a segnalare il suo post blasfemo, avviando la serie di eventi che l’hanno portata in carcere e potrebbero rovinarle la vita, è stata un'associazione italiana.
Chissà se Fatima sapeva che la sura 108 è particolarmente importante perché prescrive come svolgere i riti della Festa del Sacrificio, la principale ricorrenza islamica che ricorda la prova alla quale Dio ha sottoposto Abramo ordinandogli di sacrificare il figlio Isacco (secondo la tradizione islamica, Ismaele, nda); e chissà se ancora si ricordava di quel post su Facebook, condiviso, a detta del padre, senza neanche comprenderne il contenuto perché non conosce l’arabo.