Benedetto XVI: "il fine della liturgia è Dio"
L'eredità liturgica di Benedetto XVI esprime in primo luogo il primato dell'adorazione, consapevole che l'autentico rinnovamento liturgico non passa per istruzioni e regolamenti né per una malintesa partecipazione. Di qui l'impegno per una "riforma della riforma", partendo dal proprio esempio nelle celebrazioni pontificie.
- L'EREDITÀ LITURGICA DI BENEDETTO XVI, di Uwe M. Lang
Era il 4 dicembre 1963 quando Paolo VI promulgava il primo documento del Concilio Vaticano II: la Costituzione liturgica Sacrosanctum Concilium. Pochi giorni prima della sua rinuncia, il 14 febbraio 2013, nell’anno del cinquantesimo anniversario della Costituzione liturgica, Benedetto XVI così si rivolgeva al clero romano all’inizio della Quaresima: «Qualcuno aveva criticato che il Concilio ha parlato su tante cose, ma non su Dio. Ha parlato su Dio! Ed è stato il primo atto e quello sostanziale parlare su Dio e aprire tutta la gente, tutto il popolo santo, all’adorazione di Dio, nella comune celebrazione della liturgia del Corpo e Sangue di Cristo. In questo senso, al di là dei fattori pratici che sconsigliavano di cominciare subito con temi controversi, è stato, diciamo, realmente un atto di Provvidenza che agli inizi del Concilio stia la liturgia, stia Dio, stia l’adorazione».
Fu l’ultimo insegnamento di papa Benedetto sul tema liturgico; l’ultimo di una ricca e coraggiosa dottrina, che l’oratoriano padre Uwe Michael Lang, professore di Storia della Chiesa al Mater Ecclesiae College della St Mary’s University, Twickenham, e all’Allen Hall Seminary di Londra, grande esperto di liturgia e profondo conoscitore del pensiero di Benedetto XVI, ha saputo tratteggiare in un bellissimo articolo per adoremus.org, e che proponiamo ai lettori della Bussola nella traduzione autorizzata in italiano. The Liturgical Legacy of Pope Benedict XVI ci aiuta ad entrare nell’anno del sessantesimo anniversario del documento conciliare, alla luce dell’insegnamento del grande pontefice, che proprio sul terreno della liturgia ha fortemente voluto applicare il criterio dell’ermeneutica della riforma nella continuità, da lui espresso nell’ormai più che famoso discorso alla Curia romana del 2005.
Ratzinger è sempre stato sensibile al tema liturgico, ed è stata la persona più autorevole a riconoscere pubblicamente che qualcosa non ha funzionato nell’applicazione della Costituzione conciliare. Scriveva su L’Osservatore Romano, il 4 marzo 2000: «Nella storia del post-Concilio certamente la Costituzione sulla liturgia non fu più compresa a partire da questo fondamentale primato dell'adorazione, ma piuttosto come un libro di ricette su ciò che possiamo fare con la liturgia». Ed aggiungeva, non senza una pungente ironia: «Nel frattempo ai creatori della liturgia sembra che sia uscito di mente, occupati come sono in modo sempre più incalzante a riflettere come si possa configurare la liturgia in modo sempre più attraente, comunicativo, coinvolgendovi attivamente sempre più gente, che la liturgia in realtà è “fatta” per Dio e non per se stessi. Quanto più però noi la facciamo per noi stessi, tanto meno attraente essa è, perché tutti avvertono chiaramente che l'essenziale va sempre più perduto».
Ratzinger/Benedetto XVI aveva ben chiaro – e Padre Lang lo mette in evidenza – che a Sacrosanctum Concilum è toccata una sorte singolare: è stata letteralmente oscurata dalla riforma liturgica, come se questa ne fosse l’applicazione fedele, sacrificandone in realtà i principi fondamentali. Come quando, al n. 23, si ammonisce: «non si introducano innovazioni se non quando lo richieda una vera e accertata utilità della Chiesa, e con l'avvertenza che le nuove forme scaturiscano organicamente, in qualche maniera, da quelle già esistenti». Basterebbe ricordare alcune di queste “riforme”, come la soppressione del tempo di Settuagesima, delle Quattro Tempora, o il rifacimento ex-novo dei riti d’Offertorio, per capire che qualcosa non ha funzionato. Se poi facciamo un passo ulteriore dal rito riformato alla modalità con cui è concretamente celebrato, che dire della conservazione della lingua latina (cf. SC 36, 54, 101), o del posto principale che dev’essere conservato al canto gregoriano (cf. SC 116)?
Benedetto XVI ha richiamato ad una “riforma della riforma”, proprio partendo dalla consapevolezza che nell’operato del Consilium per l’applicazione della Costituzione liturgica, qualcosa è andato decisamente storto. E quel qualcosa ha comportato uno strappo doloroso, che egli ha cercato pazientemente di ricucire seguendo tre direzioni. Anzitutto, l’esempio. Benedetto XVI, chiamando al suo fianco Mons. Guido Marini, ha cercato di rimettere sotto gli occhi dei cattolici latini una liturgia degna di questo nome: un altare riconoscibile come tale, con sei candelabri e una grande croce nel mezzo; il gregoriano e la polifonia; la Comunione data sulla lingua e in ginocchio, l’uso esteso della lingua latina, l’utilizzo di paramenti decorosi.
Come spiega Lang, «Benedetto era convinto che l'autentico rinnovamento liturgico non passa attraverso istruzioni e regolamenti». Molti hanno giudicato questa sua reticenza ad agire sul piano giuridico come una debolezza o «come un'occasione persa». Ma Traditionis Custodes sta lì a dimostrare la fragilità della strada normativa, nell’attuale contesto di totale incomprensione della liturgia all’interno della Chiesa, persino nel suo “centro”. Quello che egli invece ha offerto durante il suo pontificato ha toccato la sensibilità liturgica di molta parte del giovane clero e dei fedeli, e ha messo radici.
Il suo insegnamento ha messo radici altrettanto profonde. E questa è la seconda direzione. Benedetto XVI ha radicato i dettagli rituali nel loro centro irrinunciabile: la liturgia come dono di Dio, da ricevere e custodire, e non da inventare e manipolare. E poi la liturgia come dono a Dio: è Lui il fine della liturgia; è l’adorazione della Trinità Sacrosanta il fine dell’azione liturgica della Chiesa e della sua esistenza. Durante la sua visita all’Abbazia di Heiligenkreuz, aveva esaltato quella «preghiera senza scopo specifico, che vuol essere puro servizio divino», offerta a Dio per il solo fatto che «è degno “di ricevere la gloria, l’onore e la potenza” (Ap 4,11), perché ha creato il mondo in modo meraviglioso e in modo ancora più meraviglioso l’ha rinnovato». Una malintesa partecipazione ha generato “liturgie” asfissianti, piene di parole e di iniziative umane, che hanno spento la vocazione essenziale dell’homo adorans.
Da qui la consapevolezza che il Rito antico avrebbe potuto soffiare ossigeno nei polmoni malati della Chiesa: terza direzione. La discussa formulazione delle due forme dell’unico Rito romano non voleva essere un punto di arrivo, ma di partenza; essa aveva una ragione ben precisa: concorrere a quella “riforma della riforma” così necessaria per recuperare il primato di Dio nella liturgia e nella Chiesa, e per ricucire lo strappo ecclesiologico della riforma liturgica. Lang mette bene in luce anche questo aspetto; in gioco, per Ratzinger – non si finirà mai di ripeterlo – c’era l’identità della Chiesa, la preservazione della «continuità interna con il suo passato», come aveva detto a Seewald.
L’eredità di Ratzinger ha dato vita a una nuova generazione di studiosi, di sacerdoti, di fedeli, che hanno fatto profondamente propri i suoi insegnamenti e hanno abbracciato con determinazione e consapevolezza la strada da lui aperta. E le persone non possono essere cancellate con un motu proprio. Benedetto XVI è andato così in profondità, che, radicandosi nel suo insegnamento, non c’è da temere né l’aridità, né la tempesta: et erit tamquam lignum, quod plantatum est secus decursus aquarum, quod fructum suum dabit in tempore suo – Sarà come albero piantato lungo corsi d'acqua, che darà frutto a suo tempo (Sal 1,3).