Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Venerdì Santo a cura di Ermes Dovico
IL CASO

Appalti pubblici diretti, porta aperta alla corruzione

L'innalazamento della soglia fino a 150mila euro per gli affidamenti diretti, contenuto in manovra, è in palese contraddizione con le norme anticorruzione dello stesso governo. Si molitplicheranno i rischi di infiltrazione criminale nell'amministrazione pubblica.

Politica 31_12_2018

Tra le pieghe della manovra finanziaria, al di là dei temi più gettonati nelle cronache politiche e istituzionali, si ritrovano novità sostanziali che paiono in contraddizione con i proclami ufficiali gialloverdi e con le reali esigenze del Paese. E spesso i problemi reali, che pure sono emersi negli anni passati, rischiano di essere affrontati in modo sbagliato, quando non distruttivo.

Un problema oggettivo è senz’altro quello delle lungaggini negli appalti pubblici. Prima di varare la realizzazione di un’opera pubblica la burocrazia impone tutta una serie di estenuanti adempimenti formali, figli della paura di episodi di corruzione e della necessità di assicurare una corretta gestione delle risorse pubbliche. Tutto ciò rallenta non poco il funzionamento della macchina amministrativa, generando ritardi e alimentando sfiducia nei cittadini, che assistono attoniti ad uno scarto crescente tra le dichiarazioni di principio, gli impegni formali e gli atti concreti. Più che altro l’aspetto frustrante di tale meccanismo sono i tempi biblici.

L’attuale normativa, però, lega le mani a chi gestisce la cosa pubblica, che può decidere in autonomia e celermente a chi assegnare un incarico pubblico solo per importi inferiori a 40.000 euro. Nella legge di bilancio è previsto l’innalzamento a 150.000 euro di quella soglia al di sotto della quale i sindaci possono affidare direttamente lavori, servizi o forniture. Il Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte si è detto peraltro orgoglioso di quella misura, della quale ha rivendicato con orgoglio la paternità.

Il testo recita: «Nelle more di una complessiva revisione del codice dei contratti pubblici, di cui al decreto legislativo 18 aprile 2016, n.50, fino al 31 dicembre 2019, le stazioni appaltanti, in deroga all’art.36 comma 2 del medesimo codice, possono procedere all’affidamento di lavori di importo pari o superiore a 40.000 e inferiore a 150.000 mediante affidamento diretto previa consultazione, ove esistenti, di 3 operatori economici e mediante le procedure di cui al comma 2, lettera b) dell’art.36 del d.lgs. n.50 del 2016 per i lavori di importo pari o superiore a 150.000 e inferiore a 350.000 euro».

La misura, che ha suscitato reazioni contrarie anche da parte di Raffaele Cantone, Presidente dell’Autorità anticorruzione, è fuori luogo per diverse ragioni. Anzitutto per una incoerenza con le norme comunitarie. Il codice dei contratti è stato varato in attuazione di norme europee che stimolano il ricorso a procedure ispirate alla libertà di concorrenza, di stabilimento, di impresa e del lavoro.

Di conseguenza, la normativa che regola i contratti dei quali è committente la pubblica amministrazione non può favorire modalità di individuazione del contraente restrittive della concorrenza, ma al contrario deve propendere verso la massima apertura possibile del mercato senza preclusioni di sorta verso alcuno. E’ quanto peraltro prevede già il succitato articolo 36 del codice dei contratti, che pure legittima gli affidamenti diretti, ma nel rispetto di principi di economicità, tempestività, correttezza, libera concorrenza e trasparenza.

Difficile applicare tali principi se si permettono affidamenti senza alcun confronto concorrenziale perfino per una soglia più elevata pari a 150.000 euro. L’affidamento diretto rappresenta infatti una eccezione a quei principi di libera concorrenza e, con l’innalzamento a 150.000 euro, finirà per alimentare inevitabilmente il circuito delle clientele, della corruzione e della criminalità organizzata.

Dietro l’apparente giustificazione di rispondere a bisogni condivisi e oggettivi e di curare il rapporto costi-benefici si potranno agevolmente affidare incarichi pubblici fino a 150.000 euro a portatori di voti, che un tempo erano i famosi “detentori di tessere” e ora semplicemente sono i capicordata o i capicorrente o i rappresentanti di lobby organizzate.

Il beneficio di tale innalzamento della soglia sarà minimo in termini di speditezza delle procedure e di velocizzazione degli appalti, mentre si incrementerà esponenzialmente il rischio di infiltrazioni criminali nella pubblica amministrazione e di corruzione di funzionari e politici. Mafia Capitale docet.

Prepariamoci, dunque, al dilagare di esempi di gestione “allegra” delle risorse pubbliche, mascherati da risposte oculate “nell’interesse dei cittadini”. Gli esponenti del governo porteranno sul palmo della mano casi sporadici di realizzazioni celeri, attribuendone il merito a tale innovazione legislativa, fino a quando la magistratura non prenderà qualche politico locale “con le mani nella marmellata”.
Peraltro i tempi di esecuzione e realizzazione delle opere, anche in caso di selezione diretta del contraente, sono comunque dilatati a dismisura, e quindi non è con l’innalzamento della soglia degli affidamenti diretti che si superano quelle lungaggini.

Un governo che mostra come fiore all’occhiello una legge anticorruzione tanto restrittiva, presentandola come un “unicum” in Europa per inasprimento delle pene e incisività nella lotta alle infiltrazioni criminali nella gestione della cosa pubblica, non può poi accrescere la “zona franca” degli affidamenti diretti. E’ una palese contraddizione che presto gli si ritorcerà contro.