Addio a Pollini, il pianista che univa ragione ed emozione
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Il musicista scomparso a 82 anni sapeva tenere insieme l'approccio razionale e la risposta emotiva, poiché l'interpretazione di un capolavoro comunica una verità talmente profonda da far vibrare la persona nella sua totalità.
A 82 anni nella sua casa di Milano si è spento Maurizio Pollini, uno dei più grandi pianisti del secolo scorso e di quest'ultimo ventennio. Si diplomò al Conservatorio di Milano e nel 1960 vinse a 18 anni il Concorso Chopin di Varsavia, forse il più prestigioso concorso al mondo, presentando come repertorio quattro studi di Chopin. Il genio della tastiera Arthur Rubinstein, membro della giuria, pare abbia detto: «Questo giovane suona tecnicamente già meglio di tutti noi». Piero Rattalino, esperto di pianismo e presente all’esecuzione, esclamò: «Questo giovane o diventerà il più grande pianista del mondo o finirà in manicomio!». Si perfezionò per un breve periodo con Arturo Benedetti Michelangeli, che, a giudizio dello scrivente e non solo suo, brillò di luce più intensa dello stesso Pollini. Michelangeli ammise che c’era «ben poco da insegnare a Pollini». E se lo diceva lui c’era da crederci.
Con un azzardo degno solo delle persone più umili e serie, dopo la vittoria di Varsavia si ritirò dalla scene per alcuni anni perché voleva approfondire un certo repertorio, proprio quando tutti lo avrebbero voluto. Scelta che gli costò cara come lui stesso ammise: «dopo un paio d'anni nessuno si ricordava più di me». Una dimenticanza che però durò poco perché il suo strabiliante talento lo portò alla ribalta sulle scene dei principali teatri del mondo insieme alle orchestre e ai direttori più blasonati, proponendo un repertorio che spaziava dai classici alla musica contemporanea. Fama internazionale che però non lo insuperbì mai. Rimase sempre persona riservatissima. Una volta un giornalista concluse l’intervista in modo sconsolato dicendogli: «Parlare con lei è come cavare sangue da una pietra».
A voler essere sinceri e quindi politicamente scorretti, il suo meritatissimo successo era dovuto anche al fatto che Pollini si era ben piazzato sul lato giusto della Storia, ossia sul lato sinistro. Pollini fu sempre politicamente impegnato esprimendo pubblicamente orientamenti progressisti. A quel tempo, come oggi, chi sfonda nel campo dell’arte magari non ha sempre talento – e non è il caso ovviamente di Pollini – ma deve avere le idee che vanno per la maggiore, pena l’ostracismo a vita. Forse in giro ci sono altri Pollini che per le loro posizioni non potranno mai far parte del gotha artistico universale.
Com’era il pianismo di Pollini? Dodici anni fa già ne scrivemmo dopo l’ascolto scaligero di un suo concerto e rimandiamo a quell’articolo per un approfondimento più analitico. Allora, come oggi, confermammo in buona sostanza un giudizio diffuso sull’arte del musicista meneghino: un approccio molto razionale proprio di un architetto del suono. Questa formazione così analitica derivò, come lui stesso ammise, dall’influenza educativa del padre, Gino Pollini, architetto fondatore del razionalismo italiano, e dello zio, il noto scultore Fausto Melotti, artista razionalista.
Ma, in una intervista del 2006 comparsa su Repubblica, Pollini stesso rifiutò questa lettura del suo pianismo: «Eppure quello della razionalità assoluta è un cliché in cui non mi riconosco. L'architettura musicale è un elemento importante, ma non il solo. […] Come possiamo sapere se abbiamo compreso il senso di una musica? Dall'emozione che ci procura. È un criterio soggettivo, eppure è l'unico che funziona veramente». Parrebbe quindi che tutti abbiamo sbagliato nell’esegesi dell’arte del maestro.
Ma in realtà l’approccio razionale e la risposta emotiva si tengono insieme e, più precisamente, si devono tenere insieme. Partiamo da una domanda: cosa è la musica o meglio: cosa dovrebbe essere? È il pensiero in musica, il pensiero che si fa suono e silenzio. Questo perché se la musica è strumento di comunicazione della persona, la persona ha una natura razionale e quindi la razionalità è il primo elemento che comunica o che dovrebbe comunicare. Ma l’intelletto è strumento che, prima di tutto, è alla ricerca della verità. Ne consegue che più un’opera d’arte e una interpretazione della stessa comunicano verità più saranno belle. Infatti la bellezza è l’estetica del vero, è il volto con cui si presenta la Verità. Dunque un approccio razionale nell’interpretazione può dare alcune garanzie di esprimere il vero e dunque il bello. Ed era questo l’approccio di Pollini. Ma quando si esprime il vero nell’arte e dunque quando si esprime il bello ecco che l’ascoltatore si entusiasma, ossia la totalità della persona è toccata dal vero, dal bello: passioni, sentimenti, emozioni vengono investite dalle verità apprese. La ragione dell’ascoltatore diventa allora canale che fa accendere la totalità della persona. È ciò che accadrà in Paradiso: la contemplazione di Dio, la Verità e la Bellezza per eccellenza, farà esplodere di gioia la persona nella sua totalità, in ogni sua sfera antropologica. Ecco perché Pollini non sbagliava affatto quando in quella intervista aggiunse: «Quando prendo in mano una partitura o studio un pezzo, io punto innanzitutto alla ricerca di aspetti comunicativi, a cose che davvero possano darci gioia».
Quindi una delle lezioni più preziose lasciate dal maestro è proprio questa: la ragione che interpreta un capolavoro comunica una verità, la quale verità è talmente profonda che fa vibrare la persona nella sua totalità, emozioni comprese. In Pollini quindi ragione e sentimento giustamente non potevano che procedere in modo congiunto.
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