Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
MUSICA

La ragione in musica sulle note di Pollini

Il grande pianista, a 70 anni compiuti, incanta la Scala suonando Chopin. Un'interpretazione che domina la musica e la esalta.

Attualità 21_02_2012
Maurizio Pollini Arriva sul palco un poco malfermo sulle gambe ma poi si siede davanti al suo ottantotto tasti ed ogni incertezza evapora. Maurizio Pollini, 70 anni compiuti da poco più di un mese, uno dei maggiori pianisti al mondo. E quando diciamo “uno dei maggiori” ci riferiamo a quelli che le dita di una sola mano riescono a contare. A soli 18 anni vinse nel lontano 1960 il concorso Chopin di Varsavia: una sorta di premio Nobel del pianoforte, con l’unica differenza che spesso il primo premio non viene nemmeno assegnato tanto gli esaminatori sono severi. In quell’occasione il grande Arthur Rubinstein disse: “Questo giovane suona meglio di tutti noi”.

Il 20 febbraio il milanese Pollini si è esibito alla Scala di Milano da solista. In programma il suo amatissimo Chopin con pezzi assai noti: la Fantasia in Fa minore, due Notturni, la Polacca-Fantasia in la bemolle maggiore e lo Scherzo in si minore. La seconda parte è stata dedicata a Franz Liszt con quattro brevi pezzi non molto conosciuti: Nuages gris, Unstern, La lugubre gondola, Richard Wagner-Venezia. Al termine di questi pezzi la celebre Sonata in si minore sempre di Liszt. A chiudere due bis.

Pollini attacca a suonare la Fantasia e qualcosa non convince mentre qualcos’altro entusiasma.
Partiamo da ciò che avvince. Pollini suona Chopin come forse l’avrebbe suonato – se l’anagrafe glielo avesse permesso – il buon Beethoven. In altre parole l’operazione che compie questo genio della tastiera è una rielaborazione del testo musicale in chiave assolutamente razionale. E’ un po’ come se fagocitasse la composizione, la facesse sua e poi la restituisse nell’esecuzione nuova di zecca, quasi che il compositore fosse lui stesso. Con il difetto o il pregio che Pollini non è uomo dell’Ottocento come Chopin ma interprete ormai del Terzo millennio.

Maurizio Pollini oltre ad essere figlio di Gino Pollini, famoso architetto razionalista, è cresciuto nel clima culturale musicale degli anni Sessanta dove il formalismo la faceva da padroni. Ecco quindi che le sue esecuzioni sono perfettamente equilibrate nei piani sonori, nelle agogiche, nei colori, nelle dinamiche, nei timbri. Tutto è pesato e pensato nel dettaglio. Tutto è distinguibile. Anzi ogni dettaglio rimanda alla forma nel suo insieme. Ad ascoltare Pollini pare di vedere la radiografia di Chopin: scomparsi gli svolazzi musicali, le svenevolezze e le leziosità messe al bando, si va al sodo. E’ la struttura del pezzo che interessa al maestro milanese, la coesione formale totale. Ed attraverso uno scavo intellettuale, nota dopo nota, ricostruisce a beneficio del pubblico i brani proposti. Un’interpretazione che domina la musica perché prima ha dominato razionalmente la partitura.

Qualche nota sporcata ci ricorda che di Dio ne esiste solo uno.
E poi unicamente gli stupidi pensano che il bravo pianista sia un acrobata circense che deve sempre prendere al volo il trapezio.

Nonostante questo approccio così razionale l’interpretazione, a differenza di quanto sostengono i suoi detrattori, non risulta fredda e distaccata. Pollini non è uno di quei pianai giapponesi robotici e perfetti nella tecnica, ma vuoti e aridi nelle idee musicali che suonano con lo stesso nitore di una foto scattata da una Nikon a 50 megapixel. C’è calore nei suoni di Pollini, ma un calore che non deriva dal cuore bensì dalla testa. E’ la forza argomentativa del pianismo di Pollini che entusiasma. Non concede nulla alla retorica, ma concede tutto ai contenuti di ciò che vuole dire. Questo provoca nell’ascoltatore attento l’impossibilità di staccargli le orecchie di dosso.

Detto tutto ciò però viene da chiedersi: e il romanticismo di Chopin dove è finito?
Il vecchio Fryderyk avrebbe suonato così i suoi pezzi? Non bisogna essere dei raffinati esegeti per azzardare che l’interpretazione polliniana non è proprio romantica né chopiniana. L’approccio contrasta con la natura del testo musicale. Infatti mancavano, e volutamente, le tensioni, i sospiri, gli spasmi, gli slanci, le sorprese, gli struggimenti, i palpiti, le ansie e i turbamenti che erano il pane quotidiano di un qualsiasi romantico dell’Ottocento. Il 20 febbraio tutto era soggiogato ad una ratio metronomica e ben definita, quasi spietata. Pollini imbriglia la bestia ardente dello spirito romantico e la addomestica, ma non la rende imbelle. Solo incanala la forza espressiva in termini razionali.

Un’interpretazione da rigettare quindi?
Il terreno è scivolosissimo perché l’interpretazione è una delle materie più opinabili che esista. L’interpretazione corretta è quella chopiniana (posto che qualcuno sappia con certezza come suonava Chopin) oppure quella di Pollini? Ci verrebbe da dire in prima battuta che quanto più ci avviciniamo allo spirito del compositore tanto più siamo fedeli alla sua musica, ma è anche vero che Pollini è uomo del XX secolo e parla a suoi contemporanei, e forse quindi l’interpretazione più valida è quella che declina secondo l’estetica attuale stilemi del passato perché li fa più comprensibili a noi uomini post-moderni. La questione ha l’andamento del moto perpetuo.

Ecco che invece l’approccio di Pollini ai pezzi di Listz è forse più convincente
dal punto di vista filologico, almeno per i primi quattro pezzi. In essi il clima è riflessivo, introspettivo, meditativo quasi da autoanalisi freudiana. Un ripiegamento solipsistico che si attaglia meglio alla sensibilità del maestro.

Discorso a parte merita la Sonata in si minore: forse l’ultima vera sonata di tutta la storia della musica dato che il genere era settecentesco. Un pezzo la cui difficoltà ha fatto e farà tremare i polsi a generazioni di pianisti. La forma sonata è un genere musicale che aveva regole molto rigide: Liszt gioca appunto con questi vincoli per liberarsene e nello stesso tempo per rimanervi soggiogato. Pollini si trova a suo agio in questa ambivalenza: da una parte una solida struttura formale e dall’altra un magma espressivo che allenta questi lacci formali. Guarda caso il genio polliniano ci pare che abbia brillato di più proprio nel fugato centrale, sezione in cui le regole compositive sono ferree.

E mentre le 365 lampadine (come i giorni dell’anno) dell’immenso lampadario del Teatro alla Scala si spegnevano, si accendevano quelle della trasmissione “Porta a Porta” tutta dedicata a Sanremo. Alla faccia dei sottili distinguo tra interpretazioni romantiche e intellettualmente sofisticate.