Accompagnare senza convertire: è il turno dei vescovi belgi
La visita ad limina è ormai il pretesto per avallare il ribaltamento di fede e morale a suon di pacche (romane) sulla spalla. Per sdoganare la benedizione delle coppie omosessuali il cardinal De Kesel si appoggia alle parole del preside dell’Istituto Giovanni Paolo II in nome di un'apertura a tutto, tranne alla conversione.
Da qualche tempo le visite ad limina Apostolorum pare siano diventate una sorta di vetrina dei vescovi per rilanciare sui massmedia la propria volontà di tirar dritto nel rovesciamento della fede e della morale. Una gita comunitaria a Roma con una bella chiacchierata dal Papa, il quale sembrerebbe ogni volta dare una pacca sulla spalla per confermare le più disparate scelte pastorali. I vescovi tedeschi se ne sono tornati a casa dicendo che il papa li ha incoraggiati a mantenere vive le tensioni (vedi qui) e facendo spallucce alla richiesta del cardinal Oullet di una moratoria dei documenti del Synodaler Weg.
Nemmeno passata una settimana ed arriva il turno dei vescovi del Belgio, anch’essi lieti di aver dialogato cordialmente con il Papa, dopo che una parte di loro, i vescovi fiamminghi, aveva approvato un rito per la benedizione delle coppie omosessuali (vedi qui). A dire il vero, la visita ad limina era prevista per la fine di settembre; non è chiaro se questa iniziativa liturgica abbia suggerito alla Santa Sede che fosse più prudente rimandare di qualche settimana. Il cardinale Jozef De Kesel, presidente della Conferenza Episcopale del Belgio, ha raccontato (vedi qui): «Abbiamo parlato di coppie omosessuali, abbiamo parlato di viri probati, abbiamo parlato dell’eventualità del diaconato delle donne». Nessun accenno alla spaventosa riduzione di ordinazioni sacerdotali e di cattolici che frequentano la Messa e i sacramenti.
Sulla benedizione delle coppie gay, De Kesel ha spiegato che «quel che abbiamo voluto fare è stato strutturare un po’ la pastorale, in modo che in ogni diocesi all’interno dell’équipe per la pastorale famigliare ci sia qualcuno che si occupa del problema. A Roma ne abbiamo potuto parlare e ci siamo sentiti ascoltati: questo non significa che il mio interlocutore è per forza d’accordo con me, ma abbiamo potuto discuterne. Dobbiamo aiutare queste persone, se non le aiutiamo sono perse». Ed evidentemente la creazione di una liturgia per l’occorrenza è un modo per occuparsi un po’ del problema.
Nel caso al benevolo lettore venga in mente di interpretare le premure pastorali del presule nel modo più casto possibile, è lo stesso De Kesel a fugare ogni dubbio circa quello che si intende per pastorale per le coppie omosessuali: «Si può chiedere a queste persone di vivere nella castità? Bisogna essere realisti…». Ed aggiunge: «Ho letto una presa di posizione al riguardo del preside del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per la famiglia, monsignor Phlippe Bordeyne, secondo il quale nessuno può essere privato della benedizione di Dio». Ci ritorneremo tra un attimo.
Il cardinale fiammingo approfitta anche per ritornare a spingere sulla questione dell’ordinazione di uomini sposati, «non per cambiare la disciplina della Chiesa, il celibato; ma in alcune situazioni perché dire no ai viri probati?». Ora, il minimo che si possa dire, è che De Kesel non si avveda della contraddizione logica della sua affermazione; perché permettere l’ordinazione dei viri probati significa proprio cambiare la disciplina della Chiesa sul celibato.
E poi, immancabilmente, il diaconato femminile: «secondo studi storici, teologici, esegetici, sembra che il diaconato femminile sia esistito, e anche con l’imposizione delle mani, come ministero: non lo si può negare». Ancora una volta, il cardinale sembra non avvedersi della palese contraddizione nella sua esternazione: se “sembra” che ci sia stato un diaconato femminile, perché allora “non lo si può negare”? Sembra o è certo? E l’imposizione delle mani evocata, quale valore aveva? Esistono forse testimonianze di diaconesse che svolgono gli stessi ministeri liturgici del diacono?
Torniamo alla benedizione delle coppie omosessuali. Il presidente della Conferenza episcopale belga richiamava una dichiarazione di Philippe Bordeyne, il quale, appena una settimana prima della visita dei presuli del Belgio a Roma, aveva riaperto alla possibilità di questa benedizione. Quando il caso dimostra una strana puntualità. Bordeyne ha preso nettamente le distanze dal Responsum della Congregazione per la Dottrina della Fede dello scorso anno, nel quale si spiegava che la Chiesa non ha la facoltà di impartire benedizioni a unioni di persone dello stesso sesso, in quanto «ciò che viene benedetto» dev’essere «oggettivamente e positivamente ordinato a ricevere e ad esprimere la grazia, in funzione dei disegni di Dio iscritti nella Creazione e pienamente rivelati da Cristo Signore». Queste unioni non lo sono.
Invece il preside dell’Istituto GPII, fonda la sua “apertura” su di una contorta affermazione di anteriorità del bene rispetto a ciò che è giusto e ciò che è sbagliato; la benedizione si volgerebbe al bene, senza per questo legittimare un atto. Bordeyne si appoggia sul primo capitolo del libro della Genesi, allorché Dio vede il bene che ha compiuto: «E Dio vide che era cosa buona». Ma questo testo corrobora invece proprio la posizione della Congregazione, la quale spiega che ad essere legittima è la benedizione della persona, che appunto Dio crea «molto buona» ontologicamente, e non invece la relazione omosessuale, che non è frutto della creazione divina, nonostante si continui a sostenere il contrario.
Né ha alcun senso evocare la figura evangelica di Bartimeo rimbrottato dai discepoli, per sostenere che queste coppie chiedono «a Dio quello che non si è potuto ottenere dalla Chiesa»; o ancora la solita cantilena di Gesù che mangia con i peccatori, conversa con la Samaritana, etc. Ancora una volta, questo dimostra la differenza tra la persona peccatrice ed il peccato, e non la benedizione di una unione oggettivamente disordinata.
Come De Kesel, anche Bordeyne mostra, alla fine, dov’è il vero problema: non si ha il coraggio di credere nell’opera della grazia e nella possibilità degli uomini di cambiare, di correggersi: «Siamo realistici: non tutte le persone che non possono sposarsi hanno la capacità di vivere da sole. Non hanno diritto al sostegno della Chiesa nel loro cammino di fede e di conversione? Dobbiamo avere il coraggio di essere pastoralmente creativi». Va da sé che il problema non è vivere da soli o meno, ma il tipo di relazione che si viene ad instaurare. Il sesto comandamento, semplicemente, non esiste più.
In nome della “pastorale creativa” si vuole che la Chiesa accompagni nel cammino o di una conversione selettiva – una conversione che cioè riguarda solo alcuni aspetti della persona e non altri –, o di una fede selettiva, una fede cioè che ha deciso di cancellare un intero capitolo della Rivelazione di Dio. Quest’ultima si chiama eresia; la prima invece diventa una pratica per finire negli Inferi, tutti insieme appassionatamente.