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IL CASO

A che soglia di rischio si devono sospendere le Messe?

La decisione di sospendere le Messe con popolo è figlia della cultura del "rischio zero", una pericolosa utopia. Ma il Coronavirus non è l'unica infezione contagiosa che porta anche la morte, e quindi la decisione dei vescovi diventa un pericoloso precedente. 

Editoriali 04_03_2020

Molto è già stato scritto e molto si potrebbe continuare a scrivere sulla posizione della Chiesa cattolica di fronte al coronavirus. Anche perché ormai ogni settimana ci si trova di fronte a nuove prese di posizione delle Conferenze Episcopali regionali.

Di certo, si poteva e doveva evitare la sospensione generalizzata delle Messe: provvedimento che non tiene conto del fatto che vi sono numerose chiese nelle quali il numero dei fedeli che partecipano alla Messa feriale è sicuramente inferiore al numero delle persone che erano presenti il 2 marzo a Villa San Giacomo a Bologna, quando la Conferenza Episcopale dell’Emilia Romagna si è riunita per decidere della questione…

Altrove i fedeli sono in maggior numero, ma è pur vero che spesso le chiese sono talmente grandi che in caso di starnuto o colpo di tosse, il coronavirus avrebbe fatto la fine della particella di sodio di una ben nota acqua minerale…
E poi magari un po’ di coerenza interna non sarebbe guastata: Messe sì, no, forse; feriali, ma non festive; festive, ma non feriali; ed ogni giorno lì a guardare il sito della diocesi per capire se l’indomani si può andare alla Messa oppure no.

Il punto su cui però questo articolo vorrebbe portare l’attenzione è un altro. Questa modalità di reagire ad un’epidemia come quella del Covid-19 rischia di costituire un precedente molto preoccupante. Si dice che la sospensione delle Messe sia necessaria per contenere un virus che, secondo l’ultimo aggiornamento delle ore 18 del 3 marzo (vedi qui), ha coinvolto 19 regioni, 2502 persone, con 79 decessi, di persone tendenzialmente con comorbilità. Da notare che sono stati stati effettuati poco più di 20.000 tamponi e che la presenza del coronavirus dev’essere considerata precedente alle prime segnalazioni di casi. Questo significa che la percentuale di mortalità sugli effettivi contagi potrebbe decisamente diminuire.

Se andiamo a controllare i dati delle epidemie influenzali, scopriremo che ci troviamo di fronte ad una situazione non meno rosea (vedi qui). Ogni anno, l’influenza coinvolge mediamente il 9% della popolazione, “con un minimo del 4 per cento, osservato nella stagione 2005-06, e un massimo del 15 per cento registrato nella stagione 2017-18”. Anche nel 2018-19 si sono oltrepassati gli 8 milioni di contagi. Fabrizio Pregliasco, virologo e ricercatore dell’Università degli Studi di Milano riferisce che “in Italia i virus influenzali causano direttamente all’incirca 300-400 morti ogni anno, con circa 200 morti per polmonite virale primaria”. A questi decessi, devono essere aggiunte “tra le 4 mila e le 10 mila morti indirette, dovute a complicanze polmonari o cardiovascolari legate all’influenza”. Le complicazioni sono maggiormente presenti nelle persone con malattie gravi, negli anziani, negli operatori sanitari.

Questo significa che ogni anno, a motivo di una malattia (l’influenza) che si trasmette in modalità analoga alla trasmissione dell’attuale Covid-19, muoiono centinaia di persone, in generale tutte caratterizzate da un quadro generale già compromesso. Se l’anno prossimo la campagna mediatica dovesse essere architettata per un nuovo virus proveniente da Taiwan o per un’influenza più virulenta del solito, che cosa faremo? Sospenderemo le Messe da dicembre a marzo, in via precauzionale?

La domanda non è polemica, ma vuole sollevare un problema fondamentale per la gestione di queste situazioni: il rischio zero non esiste e non esisterà mai. E allora, chiediamo: qual è la soglia di rischio tale da far scattare la sospensione delle Sante Messe? È probabile che tra i morti per l’influenza dello scorso anno, alcuni l’abbiano contratta da qualche amico o parente, che a sua volta l’aveva contratta da qualcuno che era stato alla Messa. E allora che cosa facciamo?

Si direbbe che l’episcopato italiano sia stato contagiato – questa volta sì – da quella logica diffusa da un certo mondo della medicina, che sogna il rischio zero, lo pone come obiettivo da raggiungere e per questo mette in campo qualsiasi strategia.

Come a livello della Nazione è mancata una saggia mediazione politica, che avrebbe dovuto tenere conto dei tanti beni in gioco con questa epidemia, così a livello della Chiesa italiana è venuta meno una gestione della situazione che tenesse presente la realtà, con tutte le sue sfumature di parrocchia in parrocchia, e i beni spirituali e non solo materiali coinvolti. Si è ceduto alla logica del rischio zero, una logica forse edenica, ma certamente non reale; si è dato il proprio assenso alla logica dell’effetto gregge: tutti a casa per evitare che qualcuno possa contagiarsi; si è drammaticamente ceduto alla ragione di vita di tanti nostri fratelli nella fede, ossia l’importante è la salute.

Si poteva più realisticamente e prudentemente consigliare alle persone con un quadro sanitario compromesso di non uscire per qualche tempo; a quanti si recano in chiesa, di adottare le normali misure igieniche ed evitare di accalcarsi come sardine, politica a parte; ai sacerdoti di essere più generosi e dire una Messa in più, soprattutto nel caso delle Messe festive, magari distribuendo in modo sensato ed equilibrato la presenza dei fedeli.

Avrebbe dovuto prevalere il buon senso, ma non è stato così. E questo provvedimento dei vescovi, così pronti a mettere in gioco il bene più prezioso che abbiamo su questa terra, rischia di essere un precedente molto, molto pericoloso.