5 Stelle, dal moralismo alla guerra delle poltrone
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Lo scontro tra il fondatore Grillo e l’ex premier Conte scopre le carte e svela in pieno il bluff della pretesa superiorità morale rivendicata dai pentastellati.
Per decenni i comunisti hanno rivendicato una superiorità morale nei confronti degli avversari: gli altri erano corrotti, loro erano puri. Questo il ritornello intonato dai dirigenti della falce e martello per mettere sul banco degli imputati tutti gli altri, giudicarli, condannarli o assolverli sulla base delle convenienze. La storia si è incaricata di smascherare questa ipocrita narrazione, che ha prodotto enormi danni al nostro Paese sul piano del degrado delle istituzioni e della omologazione culturale.
Quindici anni fa, nell’ottobre 2009, nacque un Movimento chiamato 5 Stelle, che nel tempo si sarebbe affermato sulla scena politica recuperando quell’idea di diversità morale di matrice comunista. L’onestà come unico criterio di selezione della classe dirigente è stata la bandiera sventolata dai grillini per macinare consensi pescandoli tra i milioni di italiani giustamente delusi dagli altri partiti, intenti a gestire il potere solo attraverso la lottizzazione e senza alcun criterio meritocratico e democratico. I pentastellati hanno dunque avuto gioco facile nel presentarsi come i moralizzatori di una classe dirigente composta in larga parte da impresentabili, ma l’incantesimo si è poi rotto quando i vertici del Movimento 5 Stelle sono entrati nella stanza dei bottoni, al governo centrale e negli enti locali: lì si è capito che, oltre l’onestà, peraltro spesso latitante, non c’era null’altro, né competenze, né senso delle istituzioni, né cultura.
Si è presto scoperto il bluff di un manipolo di avventurieri disoccupati, senza esperienze professionali, animati solo da un istinto di rivalsa per non avercela fatta nella vita, per non essere riusciti ad attingere al serbatoio delle rendite politiche, non avendo alcuna capacità per aspirarvi. Le dichiarazioni dei redditi di molti parlamentari pentastellati parlavano chiaro: zero euro all’anno, cioè nessun lavoro prima di entrare alla Camera o al Senato. La fila di molti di loro alla filiale bancaria del Parlamento per ottenere il sospirato mutuo per la casa la diceva lunga su quanto per loro quell’inganno ai danni degli italiani, peraltro ben riuscito in fase iniziale, fosse davvero la cosiddetta manna dal cielo.
I più scaltri, come Luigi Di Maio, hanno subito alzato la cresta e, con sfacciataggine e spregiudicatezza, hanno usato il Movimento per farsi largo altrove e avere la garanzia di poter sbarcare il lunario. I meno scaltri sono caduti nell’oblio, consapevoli di aver vissuto una insperata parentesi dorata della loro vita.
Oggi quei nodi sono venuti al pettine. La forza elettorale del Movimento è scesa sotto il 10% (dato delle elezioni europee del giugno scorso) e tra il fondatore, l’ex comico Beppe Grillo, e l’ex presidente del Consiglio e attuale presidente del Movimento, Giuseppe Conte, volano gli stracci e si è arrivati alla resa dei conti. Il primo vorrebbe preservare il Movimento così com’è, senza cambiare nome, simbolo e regole, quindi mantenendo il vincolo dei due mandati, che impedisce a esponenti come l’ex presidente della Camera, Roberto Fico o l’ex sindaco di Roma, Virginia Raggi, di candidarsi. Conte vorrebbe invece cambiare tutto e costruirsi un Movimento a sua immagine e somiglianza, anche per emanciparsi dall’ipoteca ingombrante del fondatore. Si tratta di uno scontro fratricida sulla strada dell’assemblea costituente programmata in ottobre dall’ex premier.
Grillo non ha ruoli ufficiali nel Movimento gestito da Conte ma, oltre che esserne il fondatore, rimane il garante dei valori dei 5 Stelle, pur a contratto come consulente per la comunicazione (compenso annuo: 300.000 euro).
Attorno all’ex comico ci sono tutti i delusi della gestione Conte e personaggi come Alessandro Di Battista, che dietro le quinte fanno il tifo per un ritorno alle origini del Movimento, al fine di riprenderne il controllo. Di Battista soltanto due anni fa definì Grillo “padre padrone”, ma oggi potrebbe trarre vantaggio dal ridimensionamento di Conte per riportare il Movimento su posizioni oltranziste e di protesta.
Conte ha capito che per stare nel campo largo con Schlein, Renzi, Bonelli e chi si aggiungerà deve avere carta bianca nella scelta dei candidati e affrancarsi da Grillo. Quest’ultimo, invece, ritiene che il nome, il simbolo e il vincolo dei due mandati siano l’essenza del Movimento, che secondo lui si snaturerebbe se non si chiamasse più così, cambiasse simbolo e consentisse ai suoi dirigenti di diventare inamovibili mestieranti della politica.
Ovviamente non si tratta di uno scontro tra due visioni del Movimento, come i protagonisti provano a far credere alla base, ma di una battaglia per il controllo delle poltrone presenti e future e delle risorse finanziarie grilline, visto che i parlamentari e i quadri dirigenti pentastellati sono tenuti a versare al Movimento parte del loro stipendio e considerato che le attività parlamentari sono sostenute con fondi pubblici e dotazioni di personale che tanto fanno gola sia a Conte che a Grillo.
Facile prevedere una radicalizzazione dello scontro, magari a suon di ricorsi e di carte bollate, senza escludere scissioni. Altro che rinnovamento morale della politica.
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