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L'OPINIONE

Visto da Trump è un disegno di stabilizzazione internazionale

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La decisisione di intervenire direttamente contro l'Iran è in perfetta continuità con quanto da sempre voluto da Trump: una stabilità mondiale basata su una divisione di sfere d'influenza tra le varie potenze. E l'uso della forza per difendere gli interessi nella sfera americana.

Esteri 23_06_2025

Il devastante attacco aereo statunitense all'Iran, nel quale - secondo gli USA - sono stati distrutti tutti i siti nucleari della dittatura islamista di Teheran, ha spazzato via d'un colpo tutte le ipotesi su una possibile volontà del presidente Donald Trump di non intervenire direttamente nel conflitto tra Israele e Iran.

Con il senno di poi, la minuziosa preparazione ed esecuzione dei raid avvalora la tesi secondo la quale non soltanto la "pausa di due settimane" come estrema offerta di dialogo al regime degli ayatollah annunciata da Trump era una chiara manovra diversiva per sviare l'attenzione dall'imminente intervento, ma fin dall'inizio esisteva un patto tra Gerusalemme e Washington per portare a termine un'operazione militare coordinata, finalizzata alla completa distruzione del potenziale nucleare iraniano, dissimulata dalla tattica del "poliziotto buono/poliziotto cattivo".

Non è facile stabilire con certezza se le cose stiano effettivamente così, o se Trump sia stato "incastrato" dagli israeliani e alla fine non si sia potuto tirare indietro dall'incombenza, che solo le forze armate atatunitensi potevano svolgere, di "finire il lavoro" che essi avevano iniziato. Non è facile, ma a questo punto non è più importante. Così come conta relativamente il fatto che la discesa in campo diretta degli americani possa innescare rappresaglie di Teheran e dei suoi residui proxies contro le basi statunitensi della regione, con il rischio di un allargamento del conflitto. I rischi in tal senso esistevano anche prima, e sarebbero aumentati anche se Israele avesse proseguito da solo negli attacchi aerei, con un contributo militare statunitense che sarebbe comunque divenuto sempre più determinante.

Il segnale fondamentale, ed inequivocabile, che Trump manda al mondo con i raid distruttivi contro i siti di Fordow, Natanz e Isfahan è un altro. È la smentita definitiva all'interpretazione equivoca della politica estera trumpiana – veicolata da più parti – come un ritorno degli Stati Uniti all'isolazionismo, un pacifismo generalizzato fondato sulla rinuncia di Washington ad esercitare un ruolo di superpotenza globale. Tale equivoco – alimentato dalle speranze e dalla propaganda di alcuni tra gli antagonisti globali dell'Occidente, a partire dalla Cina – ha fatto breccia anche in una parte della coalizione MAGA alla base della vittoria elettorale del tycoon. Che ha inteso il ripudio della dottrina neo-con di "esportazione della democrazia" e delle "guerre infinite" come l'annuncio di un disimpegno pressoché totale degli Usa dagli scacchieri internazionali più "caldi", tra cui in primo luogo proprio quello mediorientale.

Ma la "dottrina Trump" non è mai stata questa. Non lo era nel suo primo mandato, e a maggior ragione non lo è oggi, in cui i nodi di decenni di assestamento degli equilibri di potenza mondiale dopo la fine della guerra fredda stanno venendo tutti al pettine.

La "dottrina Trump" è, invece, imperniata sul riconoscimento realistico che dopo la guerra fredda non è possibile fondare gli equilibri mondiali sull'unipolarismo di potenza statunitense, è necessario riconoscere un certo grado di multipolarismo, e occorre lavorare per un assetto stabile e pacifico attraverso la delimitazione di zone di influenza legittimate e difese, e trattative bilaterali o multilaterali per il disinnesco dei focolai di conflitto. In tal senso gli Stati Uniti devono usare principalmente la deterrenza militare per rafforzare la stabilità, e usare la forza militare solo quando questa è necessaria ai vitali interessi nazionali.

In questo spirito, Trump ha promosso con insistenza e convinzione una trattativa per porre fine con un onorevole compromesso alla guerra russo-ucraina e assicurare così una stabilizzazione sul fronte euro-asiatico. Nello stesso spirito ha mostrato un atteggiamento fermo ma dialogante con la Cina sia sui temi della contesa economica globale (dazi) sia su quelli strategici e geopolitici.

Nel contesto mediorientale, come è noto, il perno dell'azione pacificatrice trumpiana è il tentativo di completare gli "Accordi di Abramo" tra Israele e i Paesi arabi sunniti, e in particolare l 'Arabia Saudita. Ma a questo tentativo si oppone la costante destabilizzazione operata da decenni proprio dall'Iran, con la sua volontà esplicita di distruggere Israele, con l'inequivocabile proposito di costruire armi atomiche come diretta minaccia a quest'ultimo, e con l'azione di emissari come Hamas, Hezbollah, gli sciiti irecheni, gli Houthi. Rispetto all'Iran il principio della peace through strength non può che implicare, per Trump, anche il ricorso diretto alla forza militare per scongiurare esiti peggiori. 

Non casualmente, nella comunicazione del raid contro i siti nucleari iraniani, il presidente americano ha sottolineato come quell'azione si ponga in continuità con l'atteggiamento da lui sempre tenuto verso la teocrazia islamista di Teheran. Trump ha infatti costantemente affermato che la politica dell'Iran degli ayatollah rappresenta una minaccia esistenziale per la sicurezza di Israele e dei Paesi arabi amici. E che gli Stati Uniti non avrebbero mai potuto tollerare che gli iraniani arrivassero a dotarsi di armi nucleari. Sulla base di queste argomentazioni, nel 2018 egli aveva decretato il ritiro unilaterale degli Stati Uniti dal trattato JPCOA voluto da Barack Obama e firmato nel 2015 da Teheran e dal gruppo P5+1, sconfessando drasticamente la linea di dialogo con l'Iran promossa dall'amministrazione Dem, e che sarebbe stata poi ripresa da Joe Biden.
Sulla stessa base egli aveva riaffermato la linea della "massima pressione" attraverso dure sanzioni nei confronti degli ayatollah per indurli a desistere dai loro progetti. E con lo stesso obiettivo, che si accoppiava al duro contrasto nei confronti di Hezbollah e delle milizie sciite irachene finanziate e armate da Teheran, Trump aveva ordinato l'uccisione del generale iraniano Qasem Soleimani.

Ora, dopo la continuità nell'appoggio a Israele nel suo progressivo smantellamento dei tentacoli della potenza ostile iraniana, la decisione trumpiana di "finire il lavoro" distruggendo le ambizioni di potenza nucleare di Teheran costituisce non un rivolgimento di politica estera, ma la conferma di una linea che non è mai stata quella irenistica e rinunciataria da alcuni immaginata. E, viceversa, pone in rilievo impietosamente una volta di più l'incoerenza degli alleati europei (Ue e Regno Unito): bellicisti "senza se e senza ma" nei confronti di Putin, ma aperti fino all'ultimo al dialogo verso la dittatura integralista di Teheran e critici nei confronti dell'alleato Israele, in lotta contro i suoi nemici. In perfetta continuità con la linea delle amministrazioni Obama e Biden, che hanno in tal modo – esse sì – contribuito alla moltiplicazione dei focolai di guerra e di instabilità.

 



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