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IRAQ

Ucciso Soleimani: la dura risposta Usa all'espansionismo dell'Iran

Inizio anno veramente incandescente in Medio Oriente, con l'uccisione del generale Soleimani. In Iraq la ribellione contro le milizie sciite ha innescato un confronto diretto fra Usa e Iran. La rivolta è infatti scoppiata contro la corruzione del nuovo potere che gli iraniani hanno stabilito in Iraq, dopo la sua liberazione dall'Isis. Khamenei ha puntato il dito contro la solita cospirazione Usa e ha alzato il tiro contro il personale militare e diplomatico americano in Iraq. Fino all'assalto dell'ambasciata a Baghdad. Ma a questo punto la risposta Usa è stata durissima e inaspettata. Uccidendo il generale Soleimani, è stato colpito l'architetto dell'espansionismo iraniano in Iraq, Yemen, Siria e Libano.
- ATTENTATO CON COLTELLO, TOCCA ANCORA A PARIGI, di Lorenza Formicola

Esteri 04_01_2020
Il generale Soleimani (al centro)

Medio Oriente, un inizio anno a dir poco incandescente. Il 3 gennaio, in Iraq, un raid effettuato da un drone statunitense nei pressi dell'aeroporto di Baghdad ha infatti tolto di scena l'uomo forte del regime khomeinista iraniano, il pasdaran e capo delle Forze Al Quds, Qassem Soleimani, secondo per importanza soltanto alla guida suprema, Ali Khamenei. 

Ideatore e attore protagonista delle politiche espansionistiche di Teheran nella regione, Soleimani proveniva dalla Siria (alcuni dicono dal Libano) ed era accompagnato da membri delle milizie paramilitari sciite al soldo delle Forze Al Quds che oggi spadroneggiano in territorio iracheno. Tra le 8 vittime, in particolare, figura Abu Mahdi Al Mohandes, vice capo del gruppo Hashd Shaabi. Per paura di ritorsioni e sotto costante ricatto, il premier dimissionario, Adel Abdul-Mahdi, ha ricordato Suleimani e Al Mohandes come "simboli" della vittoria contro l'ISIS, accusando Washington di aver commesso un atto di "aggressione" in "violazione della sovranità" dell'Iraq. 

Con la sconfitta dell'ISIS, il povero Iraq è passato da un estremismo all'altro, ritrovandosi schiacciato sotto i tormenti imposti dalle milizie sciite, strumento della raggiunta egemonia esercitata sul paese dall'Iran, a vent'anni dalla fine della guerra con Saddam Hussein. Un'egemonia fondamentalista incarnata dalla figura di Suleimani e macchiatasi del sangue di diversi esponenti della società civile, con una certa preferenza per le donne attiviste nel campo dei diritti umani, come interludio alla crudele repressione delle recenti proteste animate soprattutto dalla nuova generazione, con oltre 400 morti in poco più di due mesi (ottobre-dicembre). 

Le proteste si sono scagliate contro l'enorme corruzione del governo e dell'apparato statale, come accaduto in Algeria, Libano e Sudan, in una sorta di nuovo capitolo della Primavera Araba. Di qui, la mano pesante delle forze di sicurezza, a cui si è aggiunta quella dei miliziani, perché i giovani iracheni, oltre alla classe dirigente, aveva messo nel mirino anche il condizionamento sempre più oppressivo di Teheran, che quella stessa classe dirigente ha in pugno. 

Le proteste hanno così assunto carattere profondamente anti-khomeinista, raggiungendo il culmine con il rogo dei consolati iraniani di Najaf e Karbala. Sentitosi chiamato direttamente in causa, Khamenei ha rilanciato la stantia, ma sempre pronta all'uso, teoria del complotto, puntando il dito su una cospirazione degli Stati Uniti e della CIA quale motore della rivolta.

A Washington non hanno certamente visto con sfavore l'ascesa di un movimento nazionale iracheno contrario alle ingerenze di Teheran, ma più volte Donald Trump aveva dimostrato con i fatti, e non semplicemente con le parole, la sua contrarietà a un'escalation con l'Iran, malgrado le provocazioni subite nell'ultimo periodo (si veda, ad esempio, la serie di attacchi a navi mercantili nelle acque nel Golfo). 

Tale contrarietà, dalle parti del regime khomeinista e dei suoi satelliti armati in Iraq, sembra essere stata interpretata come sinonimo di debolezza e di mancanza di volontà di reagire, autorizzando il bombardamento missilistico del 27 dicembre contro una base USA di Kirkuk ad opera delle milizie denominate Kataib Hezbollah, costata la vita a un contractor statunitense e il ferimento di membri del personale (4 americani, 2 iracheni). Il bombardamento non è stato un episodio isolato, ma il culmine di settimane di provocazioni e minacce verso diplomatici e militari di Washington, che avevano sollevato non poche critiche nei confronti di Trump sul fronte interno, da parte degli esperti e commentatori più interventisti.

Mentre provvedeva a sedare l'ostilità della popolazione, Suleimani pensava forse di poter infliggere qualche colpo significativo alla presenza americana, senza pagare dazio. Ma ha decisamente sottovalutato le intenzioni di Donald Trump, che non poteva lasciare impunito il bombardamento avvenuto a Kirkuk. Il 29 dicembre, su ordine della Casa Bianca, caccia americani hanno così colpito basi di Kataib Hezbollah in Siria e Iraq, con un bilancio di 25 morti e 50 feriti. 

Il contrattacco iraniano non si è fatto attendere, con l'assalto del 31 dicembre all'ambasciata Usa nella zona verde di Baghdad, orchestrato dalle milizie su ordine di Suleimani secondo Washington. Le forze di sicurezza governative hanno assistito inermi all'accaduto, che tuttavia non ha provocato né morti né feriti. L'assedio dei diplomatici americani e l'incendio della reception sono stati evidentemente ritenuti sufficienti dall'ex capo delle Forze Al Quds per stringere Washington nuovamente in un angolo. Stessa valutazione potrebbe averla fatta Khamenei, che ha ribattuto in maniera sarcastica al tweet del 31 dicembre, in cui Trump aveva chiaramente detto che "l'Iran sarà ritenuto pienamente responsabile per le morti provocate o i danni inferti presso ogni nostra installazione". "Pagheranno un PREZZO GRANDISSIMO. Questo non è un avvertimento ma una minaccia".

La minaccia si è poi concretizzata e a pagare il prezzo grandissimo è stato Suleimani. Khamenei ha giurato vendetta, mobilitando la folla a Teheran contro il grande Satana, mentre le milizie irachene hanno invocato la dipartita di ogni presenza militare straniera e si sono dette pronte a colpire obiettivi americani. Washington, d'altro canto, non sembra intimorita dai propositi di reazione del regime khomeinista e dei suoi alleati. I cittadini americani sono stati invitati a lasciare il paese, ma Trump ha disposto l'invio di centinaia di marines per rafforzare la sicurezza delle installazioni Usa. Dal Pentagono, inoltre, hanno assicurato che le mizie filo-iraniane verranno nuovamente attaccate con raid aerei e con droni in caso di rappresaglie contro obiettivi americani.

Ci sarà un'escalation che condurrà a una resa dei conti frontale tra Iran e Stati Uniti? È più probabile, invece, che per il momento lo scontro resti confinato in paesi terzi, come l'Iraq, e che, al contrario, si vada verso una fase di de-escalation, perché gli Stati Uniti hanno ristabilito la propria capacità di deterrenza, facendo capire al regime khomeinista di potergli infliggere pesanti perdite in qualunque momento. Ciò non vuol dire aver ridotto Teheran a più miti consigli una volta per tutte. I propositi di vendetta enunciati da Khamenei sono reali e attenderanno il momento opportuno per materializzarsi. Terrorismo, anche all'interno dell'Occidente? 

"L'Islam (quello politico, aggiungiamo noi) vincerà la sua battaglia contro l'imperialismo", ha dichiarato la guida suprema, che continua a non volersi rendere conto che a vincere il primato dell'imperialismo oggi è proprio la sua Repubblica islamista. Trump ha abbattuto Suleimani, ma con il regime khomeinista iraniano non è ancora finita.