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PAOLO IL CALDO

Virtù e conoscenza, ma chi li ha più viste?

Ulisse incoraggiò i compagni del suo ultimo viaggio con l’orazione che ha come fulcro centrale la famosa esortazione: «Fatti non foste a viver come bruti/ma per seguir virtute e canoscenza». Sulla virtù il discorso dovrebbe essere abbastanza chiaro, ma ora voglio ragionare un pochino sulla “canoscenza”.

Paolo il caldo 21_07_2015
Paolo Togni

Ulisse incoraggiò i compagni del suo ultimo viaggio, che non volevano superare le Colonne d’Ercole, con l’orazione che ha come fulcro centrale la famosa esortazione: «Fatti non foste a viver come bruti/ma per seguir virtute e canoscenza». Nonostante li abbia recitati pure Benigni, anche da questi versi resta certificata la grandezza morale di padre Dante (quelli erano fiorentini, altro che!) e degli insegnamenti che ci ha lasciato. "Virtute e canoscenza": sulla virtù il discorso dovrebbe essere abbastanza chiaro, ma ora voglio ragionare un pochino sulla “canoscenza”. In Dante e nella sua endiadi si può facilmente ritrovare il più grande tra i grandi insegnamenti di quelli che gli ignoranti odiatori del pensiero cattolico chiamano “secoli bui”: l’uomo, per raggiungere la pienezza del suo essere, deve unire a un’anima pura la necessaria conoscenza. Spirito e corpo, moralità e conoscenza per costruire, superando Agostino, l’unità dell’uomo disegnata da Aristotele e meglio definita da San Francesco e San Tommaso.

Quindi: perché l’uomo sia degno di questo nome, occorre che abbia conosciuto lo stimolo a conoscere, e che seguendolo abbia percorso almeno una parte del cammino della conoscenza. Questa regola vale, naturalmente, anche oggi e per gli uomini d’oggi. Se ci guardiamo intorno, però, la conoscenza appare un bene poco diffuso, addirittura raro. E questo vale non dico per la letteratura italiana, né per la latina o la greca; parlo di più modeste (e peraltro essenziali) nozioni di storia o di geografia. Pochi ragazzi, e quasi nessun uomo fatto, per esempio, sanno cosa sia il Trattato di Cateau Cambresis (e in che periodo sia stato stipulato, e tra chi) o dove si trovi il Monte Mac Kinley (e quanto sia alto, poi!). Non che queste nozioni siano essenziali in sé, ma la conoscenza è come una mappa geografica: chi non conosce i riferimenti in base ai quali va orientata è destinato a perdersi, o perlomeno a fare lunghi, inutili giri. Come quelli che spesso fanno i nostri governanti ignoranti.

Si accumula conoscenza attraverso un procedimento che parte dalla acquisizione della nozione, passa attraverso la sua comprensione, si rafforza con il consolidarsi del suo ricordo e si perfeziona attraverso la comprensione di come essa debba esser posta in relazione con le altre nozioni; e tanto maggior conoscenza si possiede quanto più elevato è il numero di nozioni completamente possedute e che si sa come utilizzare. Gli imbecilli contrari all’insegnamento nozionistico non si rendono conto che senza il completo possesso di un elevato numero di nozioni conoscenza e cultura non possono essere raggiunte. Credo che quanti abbiano avuto insegnanti solidamente radicati nella didattica tradizionale (che comprende, naturalmente, l’uso di una memoria quanto più possibile estesa a seguito del necessario addestramento ed esercizio) debbano essere grati al Cielo della fortuna che è stata riservata loro. Io lo sono. Se è indispensabile aver molto imparato, almeno altrettanto indispensabile è aver capito quello che si è imparato. Così come bisogna diffidare degli uomini di un solo libro, almeno altrettanto occorre diffidare da chi, avendo letto migliaia di libri, non ha ancora cominciato a capire l’abecedario. Di questi ne conosco diversi, e i nomi sono a disposizione degli interessati, naturalmente su richiesta.

Sul piedistallo costituito dalla conoscenza si costruisce poi la cultura, che – è stato detto – è ciò che ci rimane quando abbiamo dimenticato tutte le nozioni. Ma prima di dimenticarle, le nozioni devono essere state acquisite e maturate, e deve essersi acquisita la capacità di mettere nozioni e informazioni nel corretto rapporto reciproco. Poiché solo da una buona cultura opportunamente diffusa e diffusamente posseduta dalle classi dirigenti scaturisce la possibilità di orientare la società e il sistema economico produttivo verso il progresso, il problema che concretamente ci troviamo a fronteggiare è che la attuale classe dirigente, anche a seguito della scadente istruzione ricevuta, è composta in larga maggioranza da persone incolte, quindi da ignoranti. Ai quali è preclusa la stessa possibilità di elaborare valide ipotesi per il futuro: il futuro, infatti, nasce da un passato conosciuto e digerito, nel quale affonda le radici, mancando le quali non può essere validamente progettato, ma neanche ipotizzato. Queste considerazioni valgono per la gran parte dei vertici della nostra società, politici, produttivi o finanziari che siano: e rendono estremamente arduo anche solo immaginare una ripresa qualitativa o quantitativa della nostra società in loro presenza.

Mi è sfuggita l’ignoranza profonda che caratterizza gran parte del mondo degli “intellettuali”, togati e no. Questo conferma la non dipendenza del possesso di un’adeguata cultura dalla frequenza di luoghi di insegnamento o dal conseguimento di titoli accademici e dottorati. Tanto più in quanto il livello culturale medio della popolazione nazionale è desolatamente scadente. I docenti usciti dal processo formativo negli anni irresponsabili e incolti situati tra il 1968 e il 1990 hanno prodotto danni enormi; loro stessi ignoranti, impadronendosi della nobile e impegnativa funzione docente, hanno sgangherato la struttura culturale del Paese, creato intere generazioni di ignoranti, e messo in gravi difficoltà chi volesse recuperare i danni fatti.

E adesso? C’è una sola cosa da fare: ricreare non la “buona” (?) scuola, ma la scuola, su basi di preparazione e serietà. E per fare questo, per quanto possa dispiacere a tanti, applicare una feroce selezione a tutto campo; tra coloro che intendano insegnarvi, e tra coloro che vogliono proseguire nel corso degli studi. Assumere decine di migliaia di somari potrà essere una bella manovra elettorale, ma non risolve, nemmeno in piccola parte, i problemi del Paese